Parasha della settimana: Noé:  Genesi 6:9-11:32 23 ottobre, 2020

Nella nostra porzione di questa settimana Dio decide di causare un diluvio, che distruggerà il mondo ma che risparmierà la famiglia di Noè e gli animali che quest’ultimo porterà con sé nell’arca. Dopo il diluvio la vita ricomincia.  Vengono enunciati i comandamenti fatti a Noè e Dio utilizza un arcobaleno come simbolo del primo patto tra lui e noi. La gente comincia a costruire una città e la torre di Babele. Dio disperde la gente e dà loro da parlare lingue diverse. Vengono enumerate le dieci generazioni da Noé ad Abramo.

Lezione:

Oltre alla storia del diluvio ed alla comparsa dell’arcobaleno abbiamo quella della torre di Babele. Il popolo decide di costruire una torre che si estenda sino al cielo. Nello scorgere la torre Dio decide di disperdere gli esseri umani nel mondo e di dare loro lingue diverse. La città dove tutto ciò ha luogo è Babele, che significa “confusa” o “mischiata” – una descrizione perfetta di tutta questa storia!

Nel leggere questa storia può darsi che ci si chieda: cosa c’era di male nel costruire una torre alta sino al cielo? Molti grattaceli di oggi sembrano voler raggiungere questo obbiettivo! Ed inoltre: “Non sarebbe stato meglio se i popoli del mondo avessero una lingua comune? Non migliorerebbe questo la comunicazione e non porterebbe a una maggiore cooperazione, e forse anche pace, tra i popoli?”

I rabbini si fanno domande simili e riflettono su cosa la gente di Babele abbia fatto di sbagliato.

Abravanel, un commentatore Spagnolo/Portoghese del quindicesimo secolo, spiegò che la gente di Babele non ebbe problemi finché non decise di costruire la torre. Da allora ci furono grandi litigi su ogni dettaglio… chi avrebbe cotto i mattoni, chi li avrebbe trasportati, chi li avrebbe messi assieme nella torre?

Tutti volevano un pò di merito. Il progetto portò a gelosie e poi a odio. Ci viene detto che ci furono grandi pianti quando un mattone cadeva o veniva perso, ma quando una persona cadeva dalla torre, morendo, veniva immediatamente rimpiazzato, senza pensarci due volte. Invece di costruire un edificio per il bene del popolo di Babele, la torre divenne una competizione per ottenere fama.

Uno studio moderno da parte di Beno Jacob, uno studioso del ventesimo secolo, propone che il fallimento della torre fu perché il popolo di Babele stava lavorando per l’obbiettivo sbagliato. Invece di utilizzare il proprio talento e le proprie ricchezze per migliorare la vita dei cittadini, creando case per i senzatetto, i malati e gli anziani, talento e ricchezze vennero utilizzati per costruire una torre, inseguendo la fama. Il grande errore fu quindi l’utilizzare la propria ricchezza seguendo superbia e vanità invece di utilizzarla per migliorare la qualità di vita della città.

Sforno, un famoso commentatore italiano del sedicesimo secolo, propone una teoria completamente diversa. Secondo lui il vero crimine fu il desiderio da parte dei costruttori di assicurare che ci fosse una sola religione per tutti, un punto di vista, una via politica di fare le cose. I costruttori avevano paura della diversità di opinione e di credo, in opposizione alla libertà di pensiero e di discussione. Di conseguenza, quando Dio vide che i costruttori della torre stavano distruggendo le libertà individuali fu necessario intervenire e disperdere gli esseri umani in tutto il mondo.

Continuiamo a costruire torri sempre più alte, eppure le domande su Babele riecheggiano anche per noi. Stiamo utilizzando le nostre ricchezze per il bene della società o per fama personale? Parliamo molte lingue, ma siamo aperti ad una diversità di pensiero e di discussione? Può darsi che Dio ci abbia salvati da noi stessi nel distruggere la torre, disperdendoci in tutto il mondo con cosi tante lingue! La storia della torre di Babele ci insegna a costruire per motive positivi e non per egoismo, ed a capire che le nostre differenze a livello di lingua, cultura e tradizioni possono portare ad un rafforzamento e a benedizioni per l’umanità.

Parasha della settimana Beresheet , 16 Ottobre 2020

La prima istanza del settimo giorno visto come giorno di riposo si trova nella parasha di questa settimana. Dio lavorò per 6 giorni in cui creò il mondo ed il settimo giorno cessò di lavorare. La parola Shabbat viene della parola ebraica che significa “cessare”.

Il settimo giorno come giorno di riposo non viene più menzionato finché gli Israeliti non giungono presso il Sinai. Presso il Sinai, lo Shabbat diventa un simbolo del patto fra Dio ed Israele. In “Esodo” leggiamo che "Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d’Israele; poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò". (Esodo 31:17) Il concetto di Shabbat in quanto giorno di riposo venne allargato per includere un periodo di rinfresco e di rinnovo.

Il significato essenziale di Shabbat era di cessare di lavorare, ma come si definisce il concetto di lavoro? In “Numeri”, un uomo viene accusato di non rispettare Shabbat perchè quel giorno raccolse legna. Durante l’epoca rabbinica, i saggi ebrei codificarono le restrizioni sul lavoro durante Shabbat. Identificarono 39 azioni considerate “lavoro” e queste furono inserite nella Mishna. Le azioni considerate “lavoro” (e quindi proibite di Shabbat) includono: qualsiasi tipo di lavoro agricolo, la filatura, la tessitura, la cucitura, la caccia, la macellazione, accensione di fuochi, ed il trasporto. Nel corso dei secoli la definizione di lavoro venne allargato per rispecchiare i tempi attuali e le invenzioni che ne conseguirono. Le restrizioni di Shabbat ora includono il divieto di fare affari, toccare soldi, scrivere, stracciare carta, fumare, accedendere luci, usare il telefono, usare il televisore, usare il computer, viaggiare e portare oggetti

Lo Shabbat gioca un ruolo importante nella tradizione ebraica e nei suoi riti. La settimana rappresenta un crescendo verso Shabbat ed è per Shabbat che: intoniamo alcune delle nostre più belle melodie, recitiamo poersie e preghiere che glorificano e santificano il giorno più sacro, e prepariamo cibi che sono unici alla tavola di Shabbat.

Si potrebbe vedere l’osservanza di Shabbat come una serie di divieti, di ciò che ci è probito fare. Ma se ci concentrassimo non su ciò che ci è proibito fare ma su ciò che possiamo fare per rendere lo Shabbat un momento speciale e sacro?

Cosa possiamo fare durante Shabbat per renderlo un giorno pieno di significato e compimento? E’ il giorno in cui andiamo a trovare i nonni? E’ il giorno in cui ci troviamo con le nostre famiglie per pranzo o cena? E’ il giorno in cui ci impegniamo in un progetto di  tzedakah?  Forse è il giorno in cui esploriamo il mondo che ci circonda, andiamo a fare trekking, un giro in bicicletta o camminiamo lungo la spiaggia. Per me lo Shabbat comincia presto il venerdi mattina.

Il venerdi mattina, prima di uscire ad allenarmi, inzio a preparare la Challah. Questa per me è quando Shabbat ha inzio. Dopo aver dato da mangiare ai miei gatti, quando c’è ancora silenzio in casa ed i rumori della città non si sono ancora manifestati, apro la dispensa e tiro fuori gli ingredienti che utlizziamo per fare la Challah: lievito, farina, sale, olio, acqua e zucchero. Prima di prepare la Challah, unisco le mani ed il mio cuore vola verso le generazioni e le tradizioni che mi hanno preceduto. Il semplice antico atto di mischiare, impastare e lievitare mi danno momenti per meditare e pensare al passato, concentrarmi sul presente, ed immaginare come sarà il futuro. Penso alle mani nodose di mia nonna mentre impastava la Challah sul suo piano di lavoro di legno, apparentemente capace di miracolsamente trasformare una montagnetta di farina in una bellissima pagnotta intrecciata.

Tradizionalmente, la Challah viene intrecciata o impastata in forme associate con il cambio delle stagioni e delle feste. Una Challah con tre intrecci simbolizza la verità, la pace e la giustizia. Pagnotte circolari, che quindi non hanno né un inizio né una fine, vengono fatte per Rosh HaShanah, per simboleggiare la continuità della festa. Di Purim, vengono fatte pagnotte triangolari per simboleggiare le orecchie di Haman, e Challah dolci fatte con miele e uvetta vengono fatte durante la stagione festiva per portare gioia e felicità.

Domenica 18 Ottobre alle 10, ci troveremo come comunità e prepareremo della Challah con “The Challah Prince”- un esperto di Challah israeliano residente a Berlino. Vi invito ad unirvi a noi per esplorare il concetto di Challah, la sua storia ed il folclore che la circonda. E mi auguro che inizierete la tradizione di cucinare questo pane storico come rito preparatorio per festeggiare Shabbat.

Shabbat shalom

Parashah della settimana: Simchat Torah - 9 ottobre 2020

Questo venerdì festeggiamo Simchat Torah. Questa è la festa in cui celebriamo il fatto di aver completato la lettura della Torah e cominciamo un nuovo ciclo di letture dal primo libro della Torah: la storia della creazione.  

Nell’ultima porzione dell’ultima pergamena dell’ultimo libro - V’zot Habracha- in cui Mosè dà le sue ultime istruzioni agli Israeliti. Raccontiamo poi degli ultimi momenti di vita di Mosé prima della sua ascesa al monte Nebo, dove morirà. Il popolo lo rimpiange ed in seguito a questo Giosué prende il comando della nazione Israelita. 

Con la conclusione di questa lettura, iniziamo la storia della creazione. 

Questo è il meraviglioso inizio dell’epico viaggio del nostro popolo. Con le parole di apertura: ”In principio, Dio creò il cielo e la terra...”, non solo vengono create le stelle, la volta celeste, le acque e tutte le creature di Dio, ma la storia del nostro popolo, la storia di cui facciamo parte io e voi ed i nostri figli e nipoti, ha inizio. 

Nel leggere la storia della creazione sappiamo che i nostri patriarchi, le nostre madri storiche, la saga di Noè, le sfide di Mosé, il viaggio nel deserto e i dieci comandamenti ci attendono nelle pagine a venire. Anche se leggiamo e rileggiamo settimana dopo settimana, anno dopo anno, generazione dopo generazione, leggiamo sempre con nuovi occhi, sentiamo le storie con nuove orecchie e le interpretiamo con una nuova saggezza. 

Raccontiamo queste storie di continuo e le insegnamo ai nostri figli, che poi le condivideranno cone le generazioni a venire.

L’ultima parola nella Torah é “Yisrael.”  La prima parola della Torah è “Bereshhet.”  L’ultima lettera della Torah è una lamed, la prima è una vet.  Quando uniamo la prima e l’ultima lettera abbiamo la parola “lev” (cuore).

Terminata la lettura della Torah ed iniziandola di nuovo, portiamo la Torah nei nostri cuori. Come ci viene detto nella preghiera di v’ahavta: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza. Lo studio della Torah viene posto al centro dei nostri corpi, è il nucleo delle nostre vite. La Torah rappresenta il cuore dell’ebraismo, dato che è la fonte da cui viene tutto il resto. 

Nel sentire le ultime e le prime parole durante questo Simchat Torah, ballate (virtualmente) con la Torah e tenetela stretta(virtualmente) al vostro corpo, tenetela ancora più stretta quest’anno e fate che questa antica pergamena vi possa toccare e rinnovare il dovere di studiare la vita ebraica e di agire con amore e gentilezza.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Il Blog di Cantor Kent - Sukkot - 2 ottobre 2020

Sono cresciuto in una comunità ebraica reform nella parte orientale di Long Island. Sukkot era la festa dopo Rosh Hashana in cui finalmente davamo l’addio all’estate. Le temperature si abbassavano, giacche pesanti venivano tirate fuori dal loro sonno in naftalina, e le zanzariere  venivano sostituite con le controfinestre. C’erano due sukkot  nella sinagoga- una sul bimah e l’altra nel parcheggio della sinagoga. Entrambe erano decorate con flora locale: rami di pino, foglie d’acero e giunchi provenienti dalle sponde del Great South Bay. In quanto studente di una scuola religiosa, mi ricordo che entravamo nella sukkah, cantavamo canzoni e intonavamo le benedizioni, ma non mangiavamo né dormivamo dentro, faceva troppo freddo.

                Quando mi trasferii a Los Angeles ed iniziai il mio ruolo di cantore presso il Temple Isaiah, Don ed io ci occupavamo della costruzione e decorazione della sukkah. La nostra casa si trovava su una collina con vista dell’intera valle di San Fernando e le montagne di Santa Monica fungevano da sfondo perfetto per la nostra struttura stagionale. Invitavamo i nostri amici ad aiutarci nel decorare ed ogni anno la sukkah aveva un tema diverso. Un anno fu il tema dei Super-eroi, un altro anno fu quello di famose donne ebree e nel 2001, poche settimane prima dell’attentato al  World Trade Center, la sukkah venne decora di rosso,bianco e blu.

                Sette anni dopo, Don ed io facemmo Aliyah a Gerusalemme e nel nostro container pieno di cose di casa, che viaggiò da  Los Angeles ad Ashdod per poi arrivare a Gerusalemme , vi erano anche alcune delle nostre decorazioni di sukkah preferite :  i lati di una sukkah dipinte con tanto amore da un nostro amico ed alcune decorazioni rimaste dalla nostra sukkah del 9/11. Quando ci mettemmo alla ricerca di un appartamento a Gerusalemme, speravamo sempre di trovarne una con uno spazio all’aperto per una sukkah :  forse anche un balcone abbastanza grande da sostenere una sukkah che si poteva aprire alle stelle o anche un appartamento al piano terra con un giardino.

                L’appartamento che comprammo non si trovava nè al piano terra nè aveva un balcone abbastanza grande per una sukkah—di conseguenza le decorazioni sono rimaste nel nostro machsan (ripostiglio) che si trova nella cantina dell’edificio. Ma ciò non ha interrotto la nostra celebrazione di Sukkot. Difatti, negli anni senza pandemia, siamo stati invitati presso le sukkot di amici. Anche se non possiamo costruirne una, causa i limiti di spazio, molti dei nostri vicini sono estremamente creativi nella loro gestione del vivere in un piccolo appartamento, nel rimanere fedeli alla regole tradizionali e nel costruire una sukkah.

                Sembra che Gerusalemme ospiti una sukkah particolarmente unica: precarie sukkot a sbalzo si possono vedere sui lati dei palazzi. Queste sukkot sono dei miracoli di ingegneria: lati dei balconi vengono aperti ed abbassati, viene esteso un pavimento temporaneo, creando lo spazio per la costruzione di una sukkah. Non sono mai stato invitato a mangiare o a soggiornare in una di queste sukkot-e avrei paura a passare del tempo in una struttura che si trova sull’orlo di un edificio, mentre faccio finta di divertirmi nel recitare b’rachot o consumare un pasto. Nonostante la paura di essere un’ospite in una di queste sukkot, mi sento anche nervoso nel camminarci sotto. Pendono, senza sforzo, sui lati dei palazzi, non fanno parte né del terreno né del cielo. Nell’attraversare le strade, mantenendomi ad una certa distanza, riesco a sentire le voci di coloro che festeggiano in queste sukkot,   completamente ignari della tenue natura dei cavi che li tengono sospesi a quaranta piedi da terra.

                Ciò che è unico di queste sukkot è che si trovano sospese fra le due Gerusalemme di cui parlavano gli antichi rabbini; la Gerusalemme di sopra o Gerusalemme dei cieli (shel malah) e la Gerusalemme di terra o di sotto (shel matah). A Gerusalemme viviamo costantemente tra queste due. Vi è la Gerusalemme dei luoghi sacri e della gente sacra e la Gerusalemme in cui si cerca un posteggio mentre ci si trova in mezzo al traffico. Vi è la Gerusalemme di speranze, sogni e desideri spirituali e poi quella del conflitto politico, di battaglie religiose, di frontiere e di mura. Questo è il messaggio di Sukkot qui a Gerusalemme: la ricerca di uno spazio, del nostro luogo sacro, e del tentare di volare come angeli moderni sopra I lati degli edifici per qualche giorno, mentre volteggiamo tra il sacro ed il profano, il terreno ed il celeste, il reale e l’irreale.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Il Blog di Cantor Kent - 25 settembre 2020

Cari Amici,

Vi invito a leggere il Blog del Cantore Kent di questa settimana.Con l'augurio di una Gmar Chatima Tova per un anno spettacolare in materia e in spirito per voi e le vostre bellissime famiglie

Jonah: La fuga da noi stessi

(Durante Yom Kippur leggiamo il Libro di Jonah, tranne che quest’anno, data la natura abbreviata delle nostre funzioni su Zoom).

Mi piaceva tanto vivere a Los Angeles, dato che è una delle 3 città più “atletiche” del mondo. Il suo clima e geografia permettono di far lavorare i muscoli quasi ogni giorno dell’anno.

Fare surf la mattina, fare mountain bike nel pomeriggio.

Andare a sciare la mattina, fare vela la sera.

Forse uno degli sport più popolari a Los Angeles è la corsa. Potete vedere ovunque gente che corre. Nelle strade principali. Sulle passerelle che portano alla spiaggia, sui sentieri che portano ai monti di Santa Monica. Presso la mia vecchia congregazione, Temple Isaiah, c’erano diversi corridori, tra amatori e maratoneti. Anche se non siete corridori, vi vorrei presentare uno dei corridori più famosi all’interno della Bibbia : Jonah, la figura centrale del profetico libro che leggiamo durante il pomeriggio di Yom Kippur.

La storia di Jonah è quella di un’uomo che corre. A Jonah viene ordinato da Dio di avvisare il popolo di Nineveh che sarà distrutto, e cosa fa Jonah? Corre via. Invece di dirigersi verso Nineveh, Jonah sale su di una nave presso il porto di Jaffa che si sta dirigendo a Tarshish, alquanto lontana dalla destinazione ordinata da Dio. Non solo Jonah corre via, ma corre molto lontano nella direzione opposta. Jonah è cosi voglioso di fuggire da Dio e dal suo richiamo alla profezia, che, secondo un commentatore biblico, paga il biglietto per tutti gli altri passeggeri presenti sulla nave. Jonah è talmente determinato a fuggire da prendere il comando della nave.

Una volta sulla nave, Jonah crede di essere riuscito ad eludere la propria responsabilità nell’avvisare il popolo di Nineveh della sua prossima distruzione. Giunge quindi una tempesta ed i marinai credono che uno di loro sia colpevole di questa sfortuna. In seguito ad un voto, Jonah risulta essere la causa della tempesta e gli viene chiesto “Chi sei? “Perchè sei qui?” “Chi ti ha mandato?”

E Jonah risponde: “Sono un ebreo. Fui mandato da Dio, che creò il cielo e la terra.”

Anche in un momento di grande bisogno, Jonah sta ancora correndo, sta fuggendo da sé stesso, e non rivela mai il suo nome ai marinai.

Di conseguenza viene buttato in mare, nella speranza che la tempesta si quieti.

La parte in cui compare la balena è facile. Qui Jonah non può fuggire: non ci sono tapis roulants nella pancia di una balena. Ciò nonostante, dopo 3 giorni nel suo ventre, la balena sputa fuori Jonah e solo allora decide di recarsi a Nineveh.

Una volta arrivato, dice al re di Nineveh a tutti gli abitanti ed anche agli animali di indossare tele di sacco e di digiunare in modo da mostrare pentimento. Ma Jonah non vuole vedere i risultati di questo invito, e si mette di nuovo a correre verso il deserto. Jonah è un po’ il “Forrest Gump” della Bibbia.

Jonah fugge costantemente dalle sue responsabilità.

Scappa da Dio.

Scappa da Nineveh.

In sostanza Jonah sta scappando da sé stesso.

Quando ci troviamo durante Yom Kippur, anche noi siamo corridori. Come Jonah stiamo fuggendo: dalle nostre responsabilità,dai nostri rapporti, dalle nostre famiglie, dalle nostre comunità, da ciò che è sacro e santificato.

Come Jonah stiamo spesso scappando da noi stessi.

Ciò nonostante non possiamo fuggire da noi stessi salendo su di una nave o andando nel deserto.

Yom Kippur ci ricorda che, invece di fuggire da noi stessi, dobbiamo prenderci del tempo per confrontarci con noi stessi, in modo da poter cambiare chi siamo.

Yom Kippur ci ricorda che ciò di cui abbiamo bisogno non è un cambiamento nello scenario, bensi un cambiamento dell’anima.

Questo è il vero significato di Yom Kippur: correre verso noi stessi, inziare a cambiare.

Quindi quest’anno, durante questo pomeriggio di Yom Kippur, promettiamo che questo sarà l’anno in cui smetteremo di fuggire. Forse questo sarà l’anno in cui porremo fine alla maratona che è la fuga da noi stessi, da Dio, dal prossimo.

Forse questo sarà l’anno in cui inizieremo a correre verso qualcosa.

Forse durante questo Yom Kippur inzieremo a correre verso la creazione di un mondo fatto di giustizia.

Che questo Yom Kippur possa vederci correre verso un mondo pieno di promesse.

Che questo Yom Kippur possa vederci correre verso una vita di santità.

Che questo Yom Kippur possa vederci cambiare direzione, e dirigerci verso noi stessi e verso il nostro Dio.

In preparazione per la mia prima maratona, mi venne detto: “La cosa più difficile del correre in una gara non è la gara stessa. No, e l’aver deciso di correre”.

E’ giunta l’ora di prendere la decisione di entrare in gara:

Allacciate le stringhe.

Siamo stati chiamati al punto di partenza...il cronometro è già partito.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Porzione Di Torah – Rosh Hashanah Akeidat Yitzchak –Isacco legato: Genesi 22:1-24

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La porzione di Torah che leggiamo durante Rosh Hashanah è una storia alquanto terrificante. In questa porzione Dio ordina Abramo di prendere suo figlio Isacco ed offrirglielo in sacrificio. Fortunatamente, all’ultimo momento, Dio ferma Abramo, ordinandogli di sacrificare un ariete al posto di suo figlio.

Secondo i rabbini, questa porzione era talmente importante che la scelsero come lettura per la mattina di Rosh Hashanah. Tradizionalmente la porzione in questione viene intesa come una prova della fedeltà di Abramo nei confronti di Dio. Abramo avrebbe obbedito agli ordini di Dio anche se l’ordine in questione fosse quello di sacrificare il proprio figlio? Sembra che Abramo abbia superato la prova, difatti la porzione recita: “Ora so del tuo timore di Dio, dato che non mi hai negato il tuo figlio prediletto.”

Per molti nella nostra tradizione la lezione di Akeidah è una di totale fedeltà a Dio. Secondo Maimonide , la porzione ci insegna che amiamo e temiamo Dio, facciamo ciò che Dio ci ordina. Secondo Maimonide, impariamo dalle azioni di Abramo per ciò che riguarda fino a che punto il nostro timore di Dio ci spinga ad agire.

Ad essere sincero, ho sempre avuto problemi con questa porzione. Perché dobbiamo sentire una storia del genere durante uno dei giorni più sacri? Quale Dio ci chiederebbe di sacrificare un nostro figlio? Mi sento meglio sapendo che altri commentatori nella nostra tradizione insegnano che la totale fedeltà a Dio non è la lezione impartita dal Akeidah. Difatti, questa porzione di Torah ci insegna di fare attenzione a ciò che Dio ci chiede, di mettere ciò in discussione e di pensarci due volte prima di seguire i suoi ordini.

Secondo certi interpreti, Abramo mise in discussione l’ordine Dio ed aveva diversi dubbi nei confronti della sua strana richiesta. Non si incamminò subito verso il monte Moriah. Difatti posticipò la sua partenza al mattino seguente. Fece delle domande e valutò le risposte. Voleva assicurarsi di aver pienamente compreso l’ordine di Dio prima di agire. Abramo non era ciecamente fedele-piuttosto la sua fede si basava su domande e risposte.

Si, la nostra porzione di Torah ci impartisce una lezione sulla fedeltà, ma non una fedeltà cieca, bensì una fedeltà basata sul significato e la comprensione. Proprio come Abramo fa fatica a determinare ciò che vuole Dio da lui, anche noi facciamo fatica a capire cosa significhi essere fedeli a Dio. L’Akeidat Yitzchak ci insegna a seguire gli ordini di Dio. Ciò nonostante, abbiamo il diritto, se non l’obbligo, di fare domande ragionevoli ed assicurarci di comprendere il significato e le conseguenze delle nostre azioni.

L’Shana Tovà

Rabbi Goor

Porzione Di Torah Settimanale: Nitzavim- Vayeilech 11 Settembre 2020

Con questa porzione di Torah ci avviciniamo sempre più alla fine della lettura della pergamena. E poi, con Simchat Torah, leggeremo le ultime parole del Deuteronomio e cominceremo subito con le prime parole della Genesi. I discorsi e le raccommandazioni al popolo stanno diventando sempre più angoscianti ed emotivi. Nella porzione di Torah di questa settimana, Mosé si rivolge agli Israeliti con queste parole sacre:

“Vi trovate qui in piedi alla presenza di Dio in modo da poter fare un patto con lui e prestare giuramente insieme a lui, in modo che Dio possa tener fede alla promessa fatta ai vostri padri, Abramo, Isacco e Giacobbe. Non è solo con voi, ma anche con coloro che non sono presenti, Dio propone un patto, con cui presta giuramento.”

Solo da questo discorso impariamo tanto, a partire dalla prima parola. Nella frase iniziale: “Vi trovate qui in piedi …” La parola ebraica per stare in piedi è “nitzavim” (il titolo di questa porzione di Torah). La parola più comune in ebraico per significare “in piedi” è “omdim.” Quindi, qual’é la differenza? “Omdim” implica uno stare in piedi passivo, mentre “nitzavim” implica uno stare in piedi pronti ad agire. Nel caso degli Israeliti, essi si trovano sul confine d’Israele pronti a fare il loro ingresso nella terra promessa. Il loro stare in piedi in quanto nazione rappresenta un atto di solidarietà e di coraggio. Questo tipo di stare in piedi con convinzione, dedizione ed intenzione. Sono pronti ad agire.

Con l’avvicinarsi di Rosh HaShanah e Yom Kippur consiglio di alzarci in piedi ed usare il verbo “Nitzvaim.” Questo è il periodo dell’anno in cui siamo ancora più consci delle nostre vite, del bene che possiamo fare per gli altri e per la società, dei cambiamenti che possiamo fare sia a livello personale che di comunità. Perciò dobbiamo alzarci in piedi con l’intenzione e con il senso di voler agire. Durante questo periodo dell’anno in cui chiediamo il perdono degli altri e di Dio  (teshuvah), dobbiamo fare ciò con dedizione ed intenzione. Il semplice stare in piedi non servirà a nulla.

Durante Rosh HaShanah e Yom Kippur, ci prepariamo ad un faccia a faccia con Dio, con noi stessi, con le nostre famiglie, con le nostre comunità. Che il nostro stare in piedi sia pieno di desiderio di agire e di intenzione. Che le nostre preghiere vadano oltre le parole. Che quest’anno le nostre preghiere significhino qualcosa.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Porzione Di Torah Settimanale: Ki Tavo 4 Settembre 2020

Nella porzione  di Torah di questa settiman, Ki Tavo (Quando raggiungerai la terra…),viene detto agli Israeliti di portare i primi frutti a Dio. Dio inoltre dice al popolo che se seguirà le sue regole ed i suoi precetti esso sarà premiato, ma se non dovesse seguire le regole sarà severamente punito.

                Questa porzione di Torah trova Mosé e gli Israeliti in preparazione della sua morte. Come un genitore, continua a ricordare più volte agli Israeliti i loro obblighi verso Dio e, in quanto nazione, verso loro stessi.

                Durante Shabbat non solo leggiamo questa porzione ma leggiamo anche una haftarah, una delle letture dei profeti, dal libro di Isaia. Da Tisha B’Av (il nono giorno del mese di Av) fino a Rosh HaShanah, ricordiamo la distruzione dell’antico Tempio, ed ogni Shabbat in questo periodo leggiamo una porzione dal libro di Isaia. Queste sette letture di Isaia sono conosciute col nome di “Sheva de-Nechamta” (Le Sette Haftarot della Consolazione). Lo Shabbat che segue Tisha B’Av, Isaia ci dice “Nachamu, Nachamu…Conforto, conforto popolo mio... “. Di settimana in settimana le porzioni di Haftarah ci ricordano che Dio offrirà conforto, e questo messaggio continua a crescere fino a raggiungere il proprio apice durante la settimana prima di Rosh Hashanah, quando il profeta Isaia ci dice: “Ho goduto enormemente nel Signore.”

                La Haftarah di questa settimana è composta da parole che potrebbero esservi familiari, dato che le troviamo anche nella canzone “L’cha dodi”. Cantiamo quest’ultima per dare il benvenuto a Shabbat nelle nostre case e nelle nostre vite. Le parole sono: 

                “Ergeti, brilla (Gerusalemme) poiché è giunta la tua luce, la gloria dell’Eterno è su di te!”

                Isaia sta dicendo agli israeliti che, anche se hanno sopportato distruzioni e devastazioni, Dio sarà con loro. 

                Con l’avvicinarsi di Rosh Hashanah, dobbiamo ascoltare il messaggio di Isaia: abbiamo attraversato sei mesi di grande difficoltà. Ci siamo trovati in quarantena nelle nostre case, separati da amici e famiglia, le nostre vite sono state rovesciate da questa pandemia, ma perseveriamo. Abbiamo trovato una nuova strada, abbiamo sviluppato nuove abitudini, e prima o poi usciremo da questo deserto e giungeremo a una specie di terra promessa.

                Quest’anno Rosh Hashanah sarà diverso da qualsiasi altro che lo ha preceduto. Saremo distanti-anche se saremo insieme. Siamo comunque una comunità e lo saremo ancora di più una volta che lo shofar intonerà il grande Tekiah Gedolah. Quest’anno dobbiamo pregare perché il nuovo anno sia pieno di pace e benedizioni, di supporto, e soprattutto affinché sia un anno pieno di salute.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Agosto 28:  Ki Teitze – Deuteronomio 21:10-25:19

Riassunto: Mosè fa un riassunto di una serie di leggi riguardanti la famiglia, gli animali e la proprietà. Vengono menzionate diverse leggi civili e penali, tra queste leggi sui rapporti sessuali, sul come interagire con in non-Israeliti ed anche quelle sugli affitti, i voti matrimoniali ed il divorzio. Questa parashah si conclude con il comandamento di ricordare uno dei crimini più esecrabili commessi contro gli Israeliti, ovvero l’uccisione degli anziani, dei deboli e dei malati da parte di Amalek, dopo che gli Israeliti lasciarono l’Egitto.

Insegnamento: La Torah ci pone davanti comandamenti positivi e negativi. “Non uccidere” e “Non Rubare” sono esempi di comandamenti negativi.  “Ama il tuo prossimo come te stesso” oppure “Osserva lo Shabbat e mantienilo sacro” sono esempi di comandamenti positivi.  Questa porzione settimanale ci insegna qualcosa di molto importante, ovvero che gli ebrei non possono rimanere indifferenti. Questo concetto ci viene insegnato tramite comandamenti positivi e negativi che non sembrano collegati ma che alla fine servono sempre come monito a non rimanere indifferenti.

L’indifferenza è una via facile da seguire.  Quanto spesso vediamo qualcuno che ha bisogno di aiuto? Magari qualcuno sul ciglio della strada che ha bucato oppure una persona anziana che ha paura ad attraversare la strada? Quante volte ignoriamo silenziosamente una battuta che utilizza stereotipi o insulti di persone di razza, religione, sesso o orientamento sessuale diverso dal nostro? Quanto volte abbiamo incrociato un mendicante e non gli abbiamo dato nulla, o un senzatetto o un immigrato e abbiamo finto di non vederli? In queste situazioni ed in altre siamo tentati di non fare nulla. Può darsi che faccia parte della natura umana essere indifferenti; potrebbe risultare naturale ignorare ciò che ci circonda. Per natura agli esseri umani non piace cambiare le cose!

La porzione di Torah di questa settimana ci invita ad andare oltre il compiacimento personale e ad essere coinvolti. “Se vedete il bovino o la pecora del vostro vicino allontanarsi non ignorate questo fatto, dovete riportarli al loro proprietario”. I rabbini si soffermano su questo concetto e ci insegnano che esso va oltre agli animali del nostro vicino ma che anche i loro vestiti, e qualsiasi oggetto di loro proprietà che venga perduto, vanno restituiti al legittimo proprietario.  Tutte queste cose fanno parte del comandamento positivo “Non devi rimanere indifferente.”

Oltre a questo comandamento positivo, impariamo la medesima lezione tramite un comandamento negativo. Nessun Moabita o Ammonita potrà mai far parte del popolo d’Israele “perché non vi hanno dato il benvenuto con cibo ed acqua durante il vostro viaggio (nel deserto) dopo aver lasciato l’Egitto.”  Perché non è permesso ai Moabiti o agli Ammoniti diventare ebrei? Perché non mostrarono empatia o preoccupazione durante un periodo cruciale. Gli ebrei si trovarono nel deserto del Sinai senza cibo né acqua, e loro rimasero indifferenti. Questo comandamento negativo è un monito a non diventare come loro.

 Questi comandamenti, sia positivi che negativi, ci invitano ad andare oltre l’indifferenza ed il nostro egoismo. Una persona che si considera religiosa e che non può dedicare un momento ai bisogni di altri esseri umani dimostra di avere una fede alquanto superficiale. E’ facile giustificare il farsi i fatti propri dal nostro punto di visto, ma dal punto di vista di Dio la vita è un continuo discorso di preoccupazione spirituale. Ci viene comandato di non rimanere indifferenti. In quanto agenti di Dio sulla terra, dobbiamo abbracciare la sua prospettiva e preoccupazione per la vita umana. Abbiamo il compito di prenderci cura di ogni essere vivente.

Shabbat Shalom

Rabbi Donald Goor

20 Agosto Shoftim – Deuteronomio 16:18-21:9

Riassunto: Nella nostra porzione settimanale di Torah, Mosè prosegue con il suo riassunto delle leggi divine in preparazione all’ingresso degli Israeliti nella terra promessa. Mosè condivide leggi riguardanti sia il sacro che il secolare. Agli Israeliti viene detto che, indipendentemente dalla situazione, dovrebbero sempre perseguire la giustizia, in modo da essere degni della terra donata loro da Dio. Al popolo viene detto di evitare la stregoneria o la magia, ovvero le pratiche aberranti dei loro vicini idolatri. Dio dice che se un Israelita dovesse erroneamente uccidere un altro Israelita dovrebbe cercare asilo in una delle tre città rifugio designate. Vengono inoltre introdotte le leggi da seguire durante i periodi sia di pace che di guerra. 

 Insegnamento: A volte le leggi presenti nella Torah sembrano fatte a caso e ci troviamo a chiederci il perché di una certa legge. Perché una certa legge compare in questo momento?  Nella nostra porzione settimanale, durante la discussione sulle leggi in tempi di guerra, Mosè si rivolge al popolo dicendo : “Quando siete in guerra contro una città dovete assediarla per molto tempo. in modo da conquistarla, non dovete distruggere i suoi alberi con le vostre asce. Cibatevi dei loro frutti, ma non abbatteteli”.  In un commento in cui sembra mostrare pietà per gli alberi, Mosè aggiunge la domanda :  “Sono gli  alberi come gli esseri umani, capaci di potersi nascondere dietro le mura della città assediata?” Quando il popolo ebraico si trova nel mezzo di una guerra contro un’altra città, in cui presumibilmente costerà molte vite, bisognerebbe preoccuparsi della sensibilità degli alberi?

Nel caso uno pensasse che questa sensibilità verso gli alberi sia solo applicata ai periodi bellici, vi sono commenti rabbinici più avanti riguardanti il discorso della mitzvah per ciò che concerne tutte le forme di distruzione sprecona nel concetto di  bal tashchit – non distruggere.  

Spesso pensiamo che questo tipo di mentalità sia solo applicabile ai giorni nostri, ma la parasha di questa settimana ci insegna che l’attenzione verso l’ambiente è un’antica priorità ebraica. Leggiamo qui della preoccupazione per gli alberi, e nel libro dei Salmi il messaggio è ancora più profondo: “La terra appartiene a Dio in tutta la sua interezza insieme a coloro che la abitano”; Questo antico insegnamento ebraico è anche presente in maniera molto eloquente nella cultura dei Nativi d’America: “Insegnate ai vostri figli ciò che abbiamo insegnato ai nostri, la terra è nostra madre. Qualsiasi cosa succeda alla terra, succederà ai figli della terra.” 

Il libro dei Salmi e questo insegnamento dei nativi americani portano avanti un discorso teologico: la terra è un dono di Dio agli uomini. Ibn Ezra, un grande commentatore rabbinco del Medioevo, impartisce la stessa lezione sotto altra forma. Egli è assai pragmatico quando dice che gli alberi donano frutti, necessari a noi per nutrirci. Abbattere un albero significa fare del male a noi stessi. Gli esseri umani non dovrebbero distruggere il loro ambiente perché la sua distruzione risulterà nella loro distruzione.

L’importanza che la cultura ebraica dà all’ambiente è anche evidente nel’insegnamento talmudico da parte di Rabbi Yochanan ben Zakkai. Questi ci insegna che se si sta piantando un albero e ci venisse detto che il Messia, il messaggero di una nuova era di pace nel mondo, è arrivato, non si dovrebbe smettere il lavoro. “Prima “ dice Rabbi Yochanan, “finite di piantare l’albero, poi uscite a salutare il Messia.”

 La nostra porzione ci insegna, ed i nostri rabbini sono d’accordo, che il proteggere la terra è una mitzvah. Trovo fantastico che la tradizione ebraica di preoccupazione per l’ambiente abbia avuto origine in un tempo in cui lo sfruttamento del pianeta ed il danno che ciò può arrecare non erano nemmeno considerati. Possiamo essere fieri che la nostra tradizione vide e continua a vedere la terra come un dono da parte di Dio e che l’umanità è responsabile in quanto compagni di Dio nel sostegno dell’equilibrio ecologico. Migliaia di anni fa ci venne insegnato di aver bisogno di una terra sana in modo da poter vivere vite sane. La responsabilità di assicurare un futuro tramite la cura della terra è molto più importante di qualsiasi promessa di pace, anche se questa venisse portata dal Messia.  Dobbiamo impegnarci a preservare e proteggere l’ambiente in modo da assicurarci che il genere umano possa sopravvivere.

Shabbat Shalom

Rabbi Don Goor

14 Agosto: Re’eh – Deuteronomio 11:26-16:17

Riassunto: La nostra porzione di Torah inizia con il richiamo da parte di Mosè agli Israeliti delle leggi divine, in preparazione del loro ingresso nella terra promessa. Al popolo viene ordinato di recitare benedizioni e maledizioni una volta entrati. Mosè poi ordina loro di distruggere luoghi e oggetti di culto pagani; di seguire solo i veri profeti e di distruggere qualsiasi individuo o comunità che veneri altre divinità. Oltre a questo vengono rivisitate le leggi riguardanti il kashrut, il sostegno ai poveri ed il ciclo annuale delle feste.

Insegnamento: Essere ebrei è una cosa meravigliosa. Possiamo essere fieri delle feste che celebriamo e dei valori secondo cui viviamo. L’ebraismo dona profondità e significato alle nostre vite e ci ricorda costantemente di rendere il mondo un posto migliore. 

Essere fieri del nostro ebraismo è fantastico. Detto questo, abbiamo il diritto di essere arroganti sulla nostra fede? Nella nostra porzione di Torah settimanale leggiamo che “Dio scelse noi tra tutti i popoli sulla terra come suo popolo prediletto.” Chiaramente l’idea che il popolo d’Israele sia il “popolo eletto” è centrale per la fede ebraica. Eppure, ciò cosa significa? Essere “eletti” ci rende migliori degli altri? 

Mosè spiega al popolo che siamo consacrati a Dio, che ci ha scelti non perché siamo più potenti o numerosi, ma perché ci ama. Altri commentatori rabbinici, forse con velato umorismo, definiscono questo rapporto come dovuto a una reciproca disperazione! Dio si mise alla ricerca di un popolo da scegliere ma nessuno voleva Dio, finché quest’ultimo non incontrò gli Israeliti! Rashi, il più grande di tutti i commentatori, fa un paragone fra gli Israeliti ed una meravigliosa gemma nella collezione di un re. Il re possiede tantissime gemme, eppure potrebbe essere più affezionato ad una in particolare. Rashi ci insegna che tutti i popoli e le nazioni del mondo appartengono a Dio. Saremo anche speciali e preziosi, ma non siamo esclusivi. Nessun popolo, nemmeno gli Israeliti, può dire di essere l’unico popolo di Dio. 

I pensatori ebrei moderni trovano la nozione di “popolo eletto” assai scomoda, temendo che porti ad arroganza nel nostro popolo e sdegno da parte degli altri. Mordechai Kaplan, un rabbino del ventesimo secolo, sostiene che non vi è nulla che dimostri che gli ebrei siano migliori degli altri. Scrive: “Nessuna nazione viene scelta o eletta o è superiore alle altre, ma ogni nazione dovrebbe scoprire la propria vocazione come fonte dell’esperienza religiosa e come tramite di salvezza per chi ne fa parte…” Rabbi Leo Baeck, in Germania e poi in Israele, dà una nuova opinione sul concetto di “popolo eletto”. Egli vede questo concetto come una condizione. Se il popolo segue i comandamenti di Dio e tiene fede al patto con Dio, esso sopravvivrà e prospererà come “popolo eletto”. 

Essere scelti non è egoistico, né ci rende migliori degli altri. Rappresenta invece una sfida ad essere “la luce tra le nazioni”. Il nostro popolo ha l’onere di essere lo strumento di Dio nel portare la verità, giustizia, rettitudine, compassione e pace agli altri popoli della terra.  Per i pensatori ebrei moderni non siamo un popolo “eletto” bensì un popolo di scelte. Un popolo con un ruolo speciale, una responsabilità, un ruolo unico ed importante da coprire nel mondo.

Shabbat Shalom

Rabbi Donald Goor

Parasha 8 Agosto: Eikev – Deuteronomio 7:12-11:25

Riassunto: Mosè si rivolge al popolo con il suo secondo discorso, con il quale tocca più argomenti. Tra questi abbiamo: il ricordare che se il popolo terrà fede al patto con Dio, lui lo proteggerà e sconfiggerà i suoi nemici al suo ingresso nella terra di Canaan; se la gente non terrà fede al patto e venererà altre divinità, sarà sconfitta dai suoi nemici e verrà cacciata da quella terra. Il discorso contiene anche un richiamo alla gente di “circoncidere i loro cuori”, di rinunciare alle loro vite precedenti e seguire i comandamenti di Dio; l’ultimo paragrafo infine contiene un ritorno dello Shema. Questo ultimo paragrafo non compare nel nostro Siddur (libro di preghiere) data la sua natura teologica di ricompensa e punizione. 

Lezione: Noi ebrei passiamo molto del nostro tempo nel ricordare il passato. Abbiamo feste che si concentrano sul ricordo. Durante il nostro seder di Pesach, raccontiamo la storia della schiavitù in Egitto. Durante Tisha B’av e Yom Hashoah ci concentriamo sul dolore che ci è stato arrecato nel corso della storia. Durante Purim festeggiamo il fatto che Esther si sia ribellata al re ed abbia salvato il suo popolo. Vi sono molteplici esempi!  Mentre il popolo si prepara all’ingresso nella terra promessa. Mosè passa molto del suo tempo a ricordare. Fa un ripasso della storia del suo popolo e dei 40 anni che gli Israeliti hanno trascorso nel deserto. 

Detto questo, noi ebrei non ci concentriamo solo sul passato; nella porzione di Torah di questa settimana Mosè pensa anche a come sarà il futuro, una volta che il popolo abbia conquistato la terra di Canaan. E’ preoccupato dal fatto che, una volta sconfitti i nemici e con la vita che diviene più agiata, la salute spirituale del suo popolo andrà deteriorandosi. Per ovviare a questo problema Mosè presenta al popolo quattro linee guida, per assicurarsi che gli Israeliti rimangano un popolo sacro. 

1.      Ricordarsi dei sacrifici del passato. Nell’aver lasciato l’Egitto e nei 40 anni di peregrinazione nel deserto Dio è stato con voi. Ovunque sarete, qualunque cosa voi facciate, Dio sarà con voi. 

2.     Dio vi sta conducendo in una buona terra, dove non vi mancherà nulla. Una volta che avrete mangiato a sazietà, ringraziate per il cibo di cui avete goduto. La gratitudine è una virtù importante.

3.     Primo o poi il popolo si adagerà e diventerà anche ricco. Detto questo, non dovete mai essere arroganti né dimenticarvi i comandamenti di Dio. Anche quando le nostre vite sono al sicuro, i comandamenti di Dio continueranno ad avere un valore per noi.

4.     Una volta entrati nella terra di Canaan e sconfitti i nostri nemici, non dobbiamo dire “Dio ci ha permesso di occupare questa terra grazie alle nostre virtù”. Dobbiamo evitare l’arroganza e rimanere umili. 

Nonostante noi ebrei si passi molto del nostro tempo nel ricordare il passato, la preoccupazione di Mosé per il futuro rimane valida oggi anche per noi. Come popolo non abbiamo più la preoccupazione di una minaccia alla nostra esistenza. Ovunque noi siamo, Milano o Israele, viviamo una vita agiata. Dobbiamo continuare ad ascoltare le parole di Mosè e seguire le sue linee guida, solo così possiamo mantenere intatta la nostra salute spirituale!

Shabbat Shalom

Rabbi Don Goor

La Parasha della settimana: Tisha B’Av

La porzione di Torah di questa settimana è tratta dal secondo libro del Deuteronomio. Il riassunto di cose già viste precedentemente nella Torah avvengono nel Deuteronomio ed in questa porzione abbiamo un ricapitolo dei dieci comandamenti, dello Shema e del V’ahavta.

                Questa settimana abbiamo anche ricordato il Tisha B’Av, un giorno importante di digiuno in cui ricordiamo le grandi tragedie della storia ebraica, in particolare la distruzione del tempio di Gerusalemme. In Israele è un vero e proprio giorno di lutto. La commemorazione comincia mercoledì sera con coloro che pregano seduti per terra, come se si stesse commemorando un caro estinto.  Seguono poi dei canti dal libro delle lamentazioni, e intonazioni di canzoni tristi. Dal tramonto fino alla sera del giorno seguente si digiuna, niente cibo, niente da bere, niente acqua. 

                Nonostante comprenda il grande significato di Tish B’Av’s, Io non digiuno. Per anni digiunai durante questo periodo per approfondire la mia comprensione delle grandi perdite che il nostro popolo subì e per commemorare la distruzione di Gerusalemme. Ma una volta trasferitomi in Israele, ed in particolare a Gerusalemme, smisi di digiunare. 

                Non digiuno per diversi motivi. La distruzione del tempio rese possibile lo sviluppo dell’ebraismo rabbinico e lo sviluppo di un ebraismo democratico che rappresenta il popolo più di quello che un ceto sacerdotale possa fare. Non rimpiango la fine di un sistema di caste, di sacrifici avvenuti nel tempio, o l’autorità riservata ai soli Kohanim. La distruzione del tempio portò anche allo sviluppo di un ebraismo liberale e con esso un senso maggiore di autonomia, il riconoscimento del diritto delle donne ad essere pienamente partecipi nella preghiera e riconosciute pienamente come membri della comunità, dato che in precedenza furono relegate fuori dalla tenda d’incontro. Pregare per la ricostruzione del tempio (che rappresenta una delle parti centrali delle preghiere del Tisha B’Av) negherebbe la democratizzazione e modernizzazione della sinagoga contemporanea e della comunità ebraica, cosi come la conosciamo oggi.

                Io non digiuno perché il mio digiuno rappresenterebbe non solo una richiesta che il tempio sia ricostruito, ma che Gerusalemme sia ricostruita. Io vivo in una Gerusalemme ricostruita.  E’ una città magnifica e moderna, una giustapposizione tra il moderno e l’antico e sta diventando sempre di più un centro di commercio, d’industria, ed un centro importante per tutto il Medio Oriente. Gerusalemme non è solo stata ricostruita, essa è in costante ricostruzione. Le pietre antiche si mescolano ai moderni grattacieli, le vie della vecchia città sono adiacenti ad un treno ad alta velocità che ti può portare da Gerusalemme a Tel Aviv in 28 minuti. 

                Il digiuno del Tisha B’Av lamenta la distruzione dell’unità ebraica. Ma questo concetto di unità è falso, una versione romantica del passato. Il popolo ebraico non è mai stato un tutt’uno. Negli antichi tempi vi furono lotte intestine tra gruppi e sette, in particolare fra i Sadducei ed i Farisei.  Oggi questa lotta intestina viene perpetuata con palese impunità e corruzione dai capi del rabbinato che macchiano il nome di Dio e la nostra tradizione nella loro interpretazione del loro stile di ebraismo che nega diritti a donne, ai non ebrei, ed ai membri della comunità LGBTQ.

                Io non commemorerò ne digiunerò questo Tisha B’Av perché la ricostruzione e nuova nascita del tempio sono predicate sull’oppressione di coloro che vivono in Israele: rifugiati, lavoratori stranieri, non ebrei, palestinesi e musulmani. Non posso digiunare questo Tisha B’Av quando il mio digiuno rappresenta la negazione dei diritti degli altri e la loro oppressione.

                Quindi come osserverò Tisha B’Av? Non uscirò per pranzo o per cena, invece, rimarrò a casa e leggerò l’antico libro delle lamentazioni e le parole moderne di poeti quali Yehudah Amichai, che comprendono la natura conflittuale di questa città santa che io chiamo casa.

                Durante Tisha B’Av cantiamo: “Riportaci, o Dio e noi torneremo”-questa è la frase finale del libro delle lamentazioni. Tis Tisha B’Av, prego che possiamo tornare ad un ebraismo e ad una Israele benedetta dalla giustizia e dalla bontà, dalla rettitudine e dalla pace.

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Parasha della settimana: Devarim 24 luglio 2020

Il Febbraio scorso, prima che il Corona virus cambiasse le nostre vite e ci venisse detto di indossare maschere, di mantenere la distanza sociale, di lavare le mani più volte al giorno, e finissimo per acquistare grandi quantità di spray anti-virus, gel per le mani etc, ero negli Stati Uniti. Mi stavo esibendo nel mio one man show “Shards” per le sinagoghe Reform in Florida, Texas, e presso il Rodeph Sholom a New York.

Trovandomi casualmente a Manhattan, cerco di vedere dei musical a Broadway. Non vi è nulla di più di magico che entare in un teatro, cercare il proprio posto, accomodarsi, attendere che luci si abbassino, che cominic la ouverture, che si accendano i fari del palco, e che giungano gli attori. Non vi è nulla come il teatro: ogni esibizione è leggermente diversa, e c’é un’elettricità nell’aria che non può essere riprodotta in nessun’altra forma artistica.

L’ultimo spettacolo che vidi a Broadway fu l’esilarante “Hadestown”, (e quando i teatri riapriranno, e lo faranno, segnatevi questo nome), sono sicuro che arriverà anche in Italia. La trama è una reinterpretazione moderna della storia di Orfeo ed Euridice. Se avete presente questo mito greco vi ricorderete che Euridice finì negli Inferi e solo Orfeo poteva riportarla sulla terra, alla condizione che, durante il loro viaggio di ritorno dagli Inferi, Orfeo non si voltasse mai indietro per assicurarsi che Euridice lo stesse seguendo. Ma come spesso accade nei miti, lui si voltò e la sua amata ritornò per sempre negli Inferi.

Quindi, vi starete chiedendo, cosa ha a che fare questa storia con la porzione di Torah di questa settimana: Devarim (Deuteronomio)? Il Deuteronomio, nel quinto libro della Torah, non solo è il libro conclusivo dei cinque libri di Mosé, ma è anche un riassunto delle storie precedenti. Quando arriviamo al Deuteronomio sappiamo che stiamo giungendo alla fine di un ciclo annuale nella nostra lettura di Torah. Nel Deuteronomio incontreremo Mosè che ripeterà più volte agli Israeliti di obbedire Dio, di non abbandonare la strada che Dio ha creato per loro, di ricordare dove erano stati, di ricordare il loro viaggio e di non dimenticare che furono schiavi in Egitto. E poi, negli ultimi versi del libro, leggiamo della incombente morte di Mosè.

Sapendo che la sua morte è vicina, Mosè benedice gli Israeliti. Il suo tono cambia da genitore spesso arrabbiato a quello di padre amorevole e benedice tutte le tribù di Israele, offrendo loro un ricordo del passato e speranza per il futuro. In seguito a questo Mosè ascende presso il monte Nebo e muore.

Quindi, vi starete ancora chiedendo, quale è il nesso tra questo ed il musical, “Hadestown”. Alla conclusione di “Hadestown” il narratore si rivolge al pubblico e canta:

E’ una vecchia canzone...è una vecchia storia di anni fa...

E’ una vecchia canzone - e finisce così…

Questa canzone fu scritta tempo fa – e fa così.

E’ una canzone triste - una tragedia …

Ma la cantiamo lo stesso…

Perché il punto è sapere come finisce e cominciare a cantarla di nuovo lo stesso

Queste parole conclusive ci ricordano come, anche quando sappiamo come la storia finisce, la rileggiamo e la raccontiamo ancora ed ancora. Quando sentiamo del mito di Orfeo ed Euridice, speriamo che forse questa volta Orfeo non si volterà e che la coppia potrà tornare a vivere insieme. Quando leggiamo la Torah, vi è speranza che forse questa volta, giunti alla fine, invece di morire sul monte Nebo solo e vecchio, Mosè potrà raggiungere la terra promessa insieme al suo successore Giosuè.

Ma ogni volta che raccontiamo la storia Orfeo si volta, ed ogni volta che finiamo il Deuteronomio Mosè muore. Ed ogni volta, proprio come migliaia di anni fa, finito il libro di Devarim immediatamente torneremo all’inizio della Torah, ovvero alla storia della creazione.

Quindi unitevi a me nella lettura del Deuteronomio. Sappiamo già cosa succederà, ma ciò è il bello del raccontare una storia: per un breve attimo mettiamo da parte ciò che sappiamo, come se stessimo sentendola per la prima volta.

Come ci viene detto in “Hadestown”: La canteremo di nuovo…

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Parasha della settimana: Matot-Maasei 17 luglio 2020

La porzione di Torah di questa settimana è doppia, dato che leggiamo le porzioni delle Matot (tribù) e di Maasei (viaggi). Queste due porzioni portano a termine il libro “Numeri” (conosciuto in ebraico con il termine “Bamidbar” –nel deserto) e ci portano al quinto libro della Torah : Deuteronomio

Queste due porzioni di Torah trovano gli Israeliti prossimi a terminare il loro viaggio di quasi 40 anni nel deserto e sempre più vicini a raggiungere la terra promessa. Tutto ciò rappresenta la tipica storia dell’immigrato: il lasciare una casa alla ricerca di una nuova, incontrando nel corso del proprio viaggio difficoltà, battaglie (sia emotive che fisiche), e grandi vittorie.

Il viaggio israelita ebbe luogo migliaia di anni fa, ma la nostra storia da immigrati, i nostri viaggi personali o quelli dei nostri nonni o addirittura dei nostri bisnonni furono ben più recenti. Proprio come la Torah racconta la storia del nostro popolo, ed è nostro compito ricordarla, è altrettanto importante ricordare le nostre storie personali. 

Molti di noi sono immigrati: abbiamo lasciato un certo posto e siamo finiti dove ci troviamo attualmente. La mia famiglia ad esempio, lasciò la Russia e giunse negli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo. La loro è una storia fatta di difficoltà, povertà. antisemitismo e speranza.

 Anche i vostri viaggi potrebbero essere verso la fede. Forse non siete nati ebrei, ma avete ora scelto di abbracciare le tradizioni, leggi, costumi, preghiere e feste ebraiche. Forse siete nati ebrei, ma il vostro attuale viaggio vi ha portato su un sentiero di miglior comprensione riguardo le tradizioni, i costumi, la filosofia e la teologia.

 Qualunque sia il vostro viaggio, questo va celebrato. Iniziare un viaggio di qualsiasi tipo richiede fede nell’attraversare l’ignoto. Raccontate la storia del vostro viaggio e scoprite il viaggio di coloro che vi hanno preceduto, poiché entrambe fanno parte di chi siete oggi. Queste storie diventano la nostra Torah personale e se siamo fortunati e benedetti, queste storie verranno raccontate per generazioni. 

 Con la fine di Maasei, abbiamo raggiunto la fine di “Numeri”, e terminata la lettura, la congregazione recita:  Chazak, chazak v’nitchazeik…Sii forte, sii forte e sarai rinforzato.

Che tutti noi possiamo essere benedetti e rinforzati nei nostri viaggi incredibili e meravigliosi.

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Parashat Pinchas 10 Luglio 2020

In questa porzione di Torah (Numeri 25:10-30:1) leggiamo che Dio eleva Pinchas, il quale uccise due amanti a colpi di lancia nella loro tenda (si- è la Torah). Inoltre, Mosè nomina Giosué suo successore, Dio annuncia agli israeliti che la terra sarà loro, e le figlie di Zelophehad fanno sì che le donne abbiano il diritto ad ereditare proprietà terriere in assenza di eredi maschi in vita.

La cosa fantastica è che le figlie di Zelophehad vengano menzionate nella Torah, dato che i nomi delle donne presenti nelle storie della Torah vengono spesso omessi, ma non in questo caso. I loro nomi sono: They Mahlah, Noa, Hoglah, Milcah e Tirzah.

Si recano da Mosé e dagli altri capi per presentare loro la propria situazione. Loro padre è morto senza figli maschi. Piuttosto che perdere il nome e la terra del loro padre, chiedono il diritto di esserne considerate eredi. Mosè chiede direttamente a Dio, il quale dà ragione alle donne e conferma che è loro diritto ereditare la terra del loro padre. Che bello, pensiamo noi! Il femminismo ed i diritti delle donne sono presenti nell’antica Israele.

Fermi tutti. Il decreto di Dio a Mosé è soggetto ad una condizione : avranno diritto alla terra SOLO se sposeranno un uomo israelita. Niente uomo israelita. Niente terra. Ovviamente la Torah non si occupa di problemi quali: e se una delle figlie non volesse sposarsi, oppure, se una delle figlie volesse sposare un uomo non ebreo?

Le figlie di  Zelophehad sono considerate essere molto sagge e rette. Rashi, il commentatore francese del Medioevo, nota che sono rette e degne di lode, dato che i loro nomi sono menzionati nella Torah. Anche il Talmud (Bava Batra 119b) recita: “Le figlie di Zelophehad erano sagge e rette.

Non solo erano sagge, onorevoli e virtuose, erano anche assai coraggiose nel presentare il loro problema a Mosè. Ma purtroppo, il loro potere venne indebolito per via degli uomini (gli autori delle leggi di allora) i quali possiamo presumere si sentissero minacciati da loro.

In Israele gli ultra-ortodossi tentano continuamente di eliminare la voce e l’immagine delle donne dalla sfera pubblica. Emittenti radio religiose proibiscono che canzoni cantate da donne vengano mandate in onda e alle donne spesso non viene permesso di partecipare a talk show radiofonici religiosi. Immagini di donne vengono spesso deturpate sui cartelloni pubblicitari, e recentemente, all’interno di un catalogo  IKEA (spedito per la maggior parte a case ultra-ortodosse), vennero rimosse immagini raffiguranti donne. Inoltre, diverse settimane fa, il comitato sulle donne della Knesset ha eletto un capo di destra, il quale ha pochissima esperienza su problemi riguardanti le donne.

Nel corso dei secoli, dai tempi della Bibbia sino ai tempi nostri, gli uomini hanno tentato di strozzare la voce delle donne. Recentemente abbiamo assistito a politici che hanno tentato di zittire e reprimere non solo le donne, ma anche gente di colore, gente appartenente alla comunità  LGBTQ+, e popolazioni indigene.

Perchè lo fanno? Perchè si sentono minacciati. Perchè hanno paura. Perchè sanno che la loro egemonia non durerà per sempre.

Dobbiamo essere come le nostre antenate: Mahlah, Noa, Hoglah, Milcah and Tirzah e far sentire le nostre voci –non dobbiamo limitarci a sederci al tavolo ed essere grati della posizione di cui godiamo. Dobbiamo chiedere uguaglianza, essere forti ed essere come le figlie di  Zelophehad.

Shabbat shalom.

Cantor Kent

Venerdì 3 luglio Parasha Balak

Nella porzione di Torah di questa settimana, il re Balak ed il suo popolo di Moab temono i figli d’Israele. Balak chiede al profeta Balaam di maledire i figli d’Israele in modo da indebolire le loro forze militari così da non riuscire a sconfiggere l’armata Moabita.

Re Balak chiede del profeta due volte-ma Balaam non risponde. Al terzo richiamo, Balaam apre bocca e invece di maledire gli Israeliti, pronuncia le parole che compongono la nostra preghiera mattutina:  Mah tovu ohalecha Yaakov- mishkinotecha Yisrael…”Che belle sono le tue tende, O Giacobbe, le tue dimore, o Israele…”  E’ una storia affascinante di una leadership mediocre, giudizi erronei, oppure di semplice disperazione che porta il re a tentare la stessa soluzione e a costantemente fallire.

Spesso ci troviamo nella “trappola di Balak.” Cercando di fare le stesse cose ed aspettandoci un risultato diverso. Quali sono esempi di questo comportamento?  Beh, piani di dieta ad esempio. Ogni primo di Gennaio, l’inizio dell’anno secolare, veniamo invasi da pubblicità alla televisione, alla radio e anche su Internet, in cui ci viene detto che QUESTA è la dieta che ci permetterà di perdere 5, 10, 15 chili. Ovviamente una volta persi quei chili di troppo, sarai una persona più felice, amichevole e di maggior successo-proprio come quelle modelle sorridenti che vediamo nelle pubblicità, e secondo me queste non hanno mai fatto un giorno di dieta in vita loro.

Quindi proviamo le varie diete proposteci e cosa succede? Si incominicia con la dieta e si finisce un paio di settimane dopo a mangiare del gelato sul divano. E ci si sente male. Questo è “l’effetto Balak”- il tenatare le stesse cose di continuo aspettandosi un risultato diverso. (Alcuni dicono che Einstein abbia definito questo comportamento un sintomo di pazzia, ma non ci sono prove che lo abbia mai detto).

Quando siamo in giro in macchino a Tel Aviv, siamo vittime de “l’effetto Balak”. Ci mettiamo alla ricerca di un parcheggio e continuiamo a fare lo stesso giro dell’isolato, perchè non si sa mai che il genio dei parcheggi abbia miracolasamente creato uno spazio per la nostra auto. Giriamo in tondo alla ricerca di quel posteggio.

 “L’effetto Balak” va oltre la dimensione del personale e può essere applicato alla sfera pubblica e degli affari internazionali. Qui in Israele e in gran parte del Medio Oriente ci troviamo nel pieno di questo effetto nella violenza che porta a violenza che genera solo altra violenza. Un “effetto Balak” ben più pericoloso di un piano dietetico-ma il teorema è lo stesso.

Come possiamo districarci da questo circolo vizioso? Come possiamo mettere fine a queste cattive decisioni oppure all’incapacità di prendere una decisione e decidere di girare in tondo?

Non posso dare una soluzione unica a come uscire dall” “effetto Balak”, dato che siamo tutti diversi. Ma posso condividere la mia personale esperienza da come ne sono uscito. Quando io e Don siamo in macchina alla ricerca di quel posteggio inesistente, cambiamo direzione.  Sembra semplice-ma ti riorienta completamente e mette te e la tua auto in un luogo diverso.

E per quanto riguarda la situazione in Medio Oriente? Come mai non si è riusciti a trovare una soluzione? Secondo me, è perchè i diretti coinvolti non hanno mai cambiato il loro approccio, e quindi non sono emersi nuovi pensieri. I nostri politici ed i nostri diplomatici non hanno mai cambiato direzione. Non hanno cambiato il loro pensiero e quindi non sono usciti dal cerchio.

Ovviamente i cambiamenti richiedono tempo. Accadono poco a poco. Lentamente, ti rendi conto che devi cambiare strada. Ti rendi conto che un modo diverso di approcciare il cibo e la nutrizione ha più vantaggi che seguire la dieta del momento.

Nel bestseller “Atomic Habits” di James Clear, l’autore spiega come siano i piccoli passi-una alla volta-che portano ad un grande cambiamento. Possiamo fermare “l’effetto Balak” –dobbiamo semplicemente cominciare un passo per volta.

Questo Shabbat, prendiamoci un momento per riflettere sui cambiamenti che possiamo effettuare. E cosa possiamo fare passo dopo passo, momento dopo momento.

Shabbat Shalom

Cantor Evan Kent

Venerdì, 26 Giugno : Parashat Korach

Riassunto: La parashà di questa settimana ci racconta dell’ennesima ribellione- questa volta contro Mosè.  Korach ed i suoi seguaci criticano Mosè ed Aronne per il fatto di agire come se fossero superiori agli altri Israeliti, mentre dovrebbero condividere il loro potere.  Dio è dalla parte di Mosè, di conseguenza nel terreno si apre una voragine che inghiotte Korach ed i suoi seguaci. In seguito, Mosè rende Aronne ed i suoi discendenti sacerdoti presso l’antico tempio. 

Lezione: Amo i giochi di prestigio.  Mi resi conto sin da bambino che fossero solo un’illusione, ma mi concentravo sulle mani del mago - per me era importantissimo capire i segreti dietro alla magia! Nella nostra porzione di Torah settimanale, il capo di ognuno delle dodici tribù porta un bastone a Mosè Il mattino successivo su quello di Aronne erano miracolosamente sbocciati fiori di mandorlo! Wow.  Come ci sono riusciti?!

Troviamo eventi miracolosi in tutta la Torah. Le dieci piaghe d’Egitto!  La divisione del Mar Rosso! La manna che cade dal cielo per nutrire gli Israeliti nel deserto! L’acqua che sgorga da una roccia! E non dimenticatevi l’asino parlante (che incontreremo presto nella nostra lettura della Torah)! Da ebrei moderni, come dobbiamo interpretare questi eventi che sembrano sfidare le leggi della natura?  Dobbiamo interpretarli come miracoli basandoci sulla nostra fede? Siamo eretici se vediamo come impossibile ciò che leggiamo nella Torah?! Come possiamo giustificare questi atti magici e miracolosi?

Coloro che hanno commentato la Torah si sono posti la stessa domanda. Spesso anche loro trovano difficile credere nei miracoli. Nel Mishnah, i rabbini sostengono che Dio avesse “pre-programmato” questi eventi il momento in cui venne creato il mondo. Vedendola in questo modo, un miracolo non è più magia, diventa invece un fenomeno programmato da Dio quando creò il mondo. Il grande rabbino Maimonide ci dà una spiegazione completamente diversa. Lui dice che sia normale porsi domande sui miracoli che vengono descritti nella Torah. Non dovremmo comunque preoccuparci troppo di questo. Essi semplicemente dimostrano il potere misterioso e meraviglioso di Dio su tutto il creato. Spinoza, filosofo ebraico del diciassettesimo secolo, rigetta questi miracoli del tutto. Secondo lui sono la fonte di “pregiudizi ignoranti di un popolo antico” che crede che Dio intervenga sul mondo a loro beneficio. Gli scienziati di oggi cercano spiegazioni di base naturale per spiegare questi antichi miracoli. Per molti, la divisione del Mar Rosso può essere spiegata come il risultato delle maree o di una tromba d’aria. Infine, Martin Buber, filosofo e teologo del ventesimo secolo, scrive “è irrilevante se questi miracoli siano accaduti o meno. Ciò che importa è solo che quanto successo fu visto dal popolo come un atto di Dio. Indipendentemente da ciò che videro, videro in esso il meraviglioso potere di Dio e questo diede loro la fede in lui”. Per Buber, un miracolo è soggettivo.

Un bastone magico su cui sbocciano fiori di mandorlo? Proprio come i nostri antenati, è normale anche per noi porci domande sulla magia e sui miracoli. Leggiamo di questi eventi affascinanti, chiedendoci il loro significato e sentendo che essi contengono segreti che dovremmo tentare di comprendere. Non sapremo mai se fossero successi a causa di un fenomeno naturale o se fossero un atto di Dio. Buber ci insegna che il nostro obiettivo è essere consci della presenza di Dio nel mondo, è aprire gli occhi verso i potenziali miracoli che ci circondano.  In quanto ebrei, non abbiamo bisogno di una spiegazione scientifica o filosofica. Possiamo invece accettare che ciò che vediamo tutti i giorni sia il miracolo della presenza di Dio in questo mondo. Ciò che conta non è ciò che vediamo coi nostri occhi ma piuttosto ciò che sentiamo nei nostri cuori.

Shabbat Shalom

Rabbi Don Goor

Venerdì, 19 Giugno : Parashat Shlach l’cha

19 Giugno:  Shlach l’cha – Numeri 12:1-15:41

Riassunto: Mosè manda 12 spie nella terra di Canaan per vedere come è fatta e quanto sarà facile da conquistare. Dieci delle spie tornano con un resoconto negativo e solo due, Giosuè e Caleb, tornano con un resoconto positivo. Il popolo è scoraggiato. Si lamenta e vuole tornare in Egitto. Di conseguenza viene punito da Dio. Inoltre, Mosè dà istruzioni agli Israeliti sul fatto di mettere da parte un po’ di challah, l’osservanza dello Shabbat, su come trattare gli stranieri, e le sulle leggi dello tzitzit. 

Lezione: Qual è la domanda che può fare un bambino che più ci fa innervosire? “Perché”?  Perché questo, perchè quello. Ciò nonostante, la domanda “perché” è una delle domande più belle che fanno gli ebrei Reform.  Spesso ci chiediamo “perché”– e la nostra domanda ha un motivo di esistere. Più comprendiamo della nostra religione, più profondo può diventare il nostro collegamento religioso. I nostri fondatori volevano sapere “perché” le donne non potevano pregare con gli uomini? “Perché” le donne non contavano in un minyan? “Perché” le donne non potevano diventare rabbini? Grazie alla domanda “perché”, ora abbiamo donne, abbiamo gente che fa parte del LGBTQ+, abbiamo gente di colore che può godere della libertà e della gioia di essere ebrei Reform.

Anche la nostra porzione di Torah di questa settimana si chiede “perché”? Perché portiamo un tallit? Nella porzione di Torah che leggiamo questa mattina, ci viene insegnato che: “L’Eterno disse a Mosè : Parla con il popolo Israelita e ordina loro di creare delle frange agli angoli dei loro indumenti nel corso degli anni ; “fai si che attacchino un cordone blu alla frangia di ogni angolo. Questa sarà la tua frangia: osservala e ricorda tutti i comandamenti dell’Eterno ed osservali, in modo che…ti ricorderai di osservare i miei comandamenti e di essere sacro al tuo Dio. Io sono l’Eterno tuo Dio che ti ha portato fuori dalla terra d’Egitto per essere il tuo Dio, l’Eterno tuo Dio.” Questo è il comandamento dello Tzitzit – il portare un tallit.  

Che comandamento interessante… Perché Dio vuole che creiamo delle frange sui nostri vestiti? Dopo tutto, la teologa femminista, Judith Plaskow, nota che, “cosa potrebbe mai interessare al creatore dell’universo che abbiamo “una frangia all’angolo dei nostri vestiti in ogni generazione” e che differenza potrà mai fare…? Eppure lo facciamo ancora! Per molti di noi, il portare un tallit, è una grande fonte di significato spirituale.

Fedele alla teologia Reform e diverso da un approccio maggiormente ortodosso, sia uomini che donne possano portare il tallit, e non è mai qualcosa di obbligatorio. Abbiamo invece la scelta, dove gli individui non giudicano gli altri in base alle decisioni ritualistiche che essi adottano. 

“Perchè” portiamo un tallit?  La nostra porzione di Torah ci insegna che Dio vuole che noi portiamo un tallit per “ricordare i comandamenti e osservarli.” Nel senso più tradizionale, portare il tallit ci ricorda che dobbiamo vivere una vita ebraica osservando i comandamenti. 

Vorrei aggiungere un’interpretazione maggiormente moderna. Credo che gli atti ritualistici siano importanti. Hanno il potere di portaci in un luogo spirituale. Proprio come l’accensione delle candele il venerdì sera ci prepara per lo Shabbat, portare un tallit ci può preparare per un atto spirituale di preghiera. Anche Yehuda Amichai, grande poeta Israeliano, si chiese il “perché” portare un tallit.  Ed in una bellissima poesia si rispose: 

Chiunque abbia mai indossato un tallit da giovane non se lo scorderà mai 
tirandolo fuori dalla sua borsa di velluto, aprendo lo scialle avvolto, 
distendendolo, baciandone il lembo del collo (ricamato in oro). 

Per poi lanciarlo in un arco 
come un cielo, un baldacchino matrimoniale, un paracadute. E poi avvolgerlo intorno alla propria testa 

come un gioco di nascondino
avvolgendo
il proprio corpo in esso, vicino e lento, rannicchiandosi dentro come un bozzolo 
di una farfalla, per poi spiegare le ali come per volare.
E perché il tallit è a strisce e non a scacchi neri e bianchi 
come una scacchiera? Perché i quadri sono finiti e senza speranza. 
Le strisce vengono dall’infinito e tendono verso l’infinito 
come la pista di decollo di un aeroporto, dove atterrano e prendono il volo gli angeli 
Chiunque abbia mai indossato un tallit non se lo dimenticherà mai.
Quando emerge da una piscina o dal mare,
si avvolge in un grande asciugamano, e lo stende di nuovo 
sopra la sua testa, e di nuovo ci si rannicchia dentro vicino e lento,
anche un po’ tremante, ride e benedice.

Che possiamo sempre chiedere “perché” in modo che il nostro ebraismo abbia un significato ed uno scopo. Che possiamo avvolgerci nelle talitot, in modo da poterci rannicchiare vicini al nostro ebraismo…ridere e benedire.

Shabbat Shalom

Rabbi Don Goor

Venerdì, 12 Giugno : Parashat Beha’ alocha

12 Giugno:  Beha’alocha – Numeri 8:1-12:16

Riassunto:  Gli ebrei continuano la loro traversata del deserto. Dio dice a Mosé di dire ad Aronne di accendere la  menorah e di mantenerla costantemente accesa. Troviamo una discussione del secondo Pesach e dei suoi sacrifici. Impariamo anche che il tabernacolo è coperto da una nuvola durante il giorno e da fuoco durante la notte e, in un tema ricorrente, la gente si lamenta e si ribella! Alla fine della porzione 70 anziani vengono scelti per assistere Mosè, dato che il peso di essere capo è troppo per una sola persona. 

Lezione: Il popolo di Israele possiede grande Chutzpah.  Hanno davvero del fegato. Non era trascorso tanto tempo, secondo la Torah, da quando il popolo vide Dio in azione sotto forma delle 10 piaghe d’Egitto. Poi il popolo si trovò presso la riva del Mar Rosso e vide la divisione delle sue acque. Arrivando al deserto del Sinai, il popolo si lamentava per la fame e Dio rispose dandogli la Manna ed acqua fresca, con una doppia porzione di queste due a Shabbat! Più tardi il popolo si trovò ai piedi del monte Sinai e ricevette il più grande dono di Dio-– la Torah. Ed ora, mentre continuano a vagare nel deserto, si lamentano di nuovo. “Stavamo meglio in Egitto. Ci ricordiamo la carne, Il pesce, i cetrioli, i meloni, i porri, le cipolle e l’aglio. Ora i nostri stomachi sono vuoti. Non c’è niente, tranne questa manna.” Wow!  Avevano proprio del fegato! Che gente ingrata!

Se voi foste Mosè, come avreste risposto a queste lamentele? Credo che mia madre avrebbe detto “vai subito in camera tua senza cena!”

Rashi, il grande commentatore rabbinico, difende il popolo d’Israele. Secondo lui, sono esausti dal caldo e dal loro viaggio. Mosè sta chiedendo loro troppo. Sono semplicemente irritati e stanchi e si lamentano come bambini. Un altro commentatore, Nachmanide, è in accordo con Rashi. Secondo lui il popolo “reagisce come reagirebbe chiunque si trovi sotto tale pressione.” Ciò nonostante, Mosè non perdona. Vede le richieste del popolo come mancanza di fede. Lo condanna per la sua mancanza di fiducia in Dio. 

Un commentatore contemporaneo, Rabbi Samson Raphael Hirsch, risponde in maniera alquanto diversa da Rashi e da Nachmanide.  Secondo lui, gli Israeliti stanno lamentandosi per noia e per un senso di diritto. La vita nel deserto è troppo facile. Dio dona loro la manna e l’acqua. Mosè li conduce nel viaggio. Il tabernacolo è completo. Non manca niente. La loro vita è semplicemente troppo facile. Vogliono un po’ di eccitazione e di nuovi stimoli, e una maggior varietà di cibo! Frustrati dal non avere nè obbiettivi nè sfide, iniziano a mormorare contro Mosè e Dio. 

Troppo spesso anche noi siamo come gli Israeliti nel deserto. E’ troppo facile lamentarsi. Sì, il nostro mondo è pieno di dolore, di malattie e anche di disperazione. Negli ultimi mesi e anche negli ultimi giorni, abbiamo assistito a sfide oltre la nostra immaginazione. Sì, come gli Israeliti nella nostra porzione di Torah, è facile lamentarsi. Ciò che non è facile, nei momenti privi di speranza, è di avere fiducia. La nostra fiducia non deve essere per forza cieca. In quanto ebrei, dobbiamo ricordare. Non possiamo ignorare il dolore. Eppure essere ebrei significa avere fiducia. La nostra sfida è ricordare ciò che c’è di buono nel nostro mondo, nelle nostre vite e nell’umanità. Come gli Israeliti dobbiamo continuare a marciare verso la terra promessa. Con la nostra tradizione a farci da guida, con il nostro passato a ricordarci lezioni importanti, possiamo guardare al futuro nella consapevolezza che un giorno migliore ci attende. 

Shabbat Shalom

Rabbi Don Goor