Shabbat Vayechi 10 gennaio – Genesi 47, 28 – Genesi 50, 26

Riassunto:       Il libro della Genesi giunge al termine. Giacobbe e Giuseppe muoiono entrambi. Giuseppe promette di seppellire Giacobbe a Canaan. Giacobbe benedice Efraim e Manasse. Ciascuno dei dodici figli riceve una benedizione. Le ossa di Giacobbe sono trasportate alla Machpelah a Hebron. La nostra narrazione si conclude con la promessa che la famiglia un giorno tornerà a Canaan.

Lezione:          Secondo la tradizione ebraica, la vigilia di Shabbat e delle feste, prima di recitare il Kiddush, i genitori benedicono i propri figli. I figli maschi vengono benedetti con queste parole: “Possa Dio ispirarti a vivere come Efraim e Manasse”. Rashi insegna che la benedizione per i ragazzi è basata sulla porzione di questa settimana, in cui Giacobbe benedice i suoi nipoti, i figli di Giuseppe.

È interessante notare che la nostra tradizione non offre una benedizione equivalente per le figlie. Ma c’è una benedizione nel libro di Ruth (4, 11) che ci si avvicina: “Il Signore renda la donna che entra in casa tua [Ruth] come Rachele e Leah, che entrambe fondarono la Casa d’Israele”. E quindi, in molte case ebraiche oggi, uno o entrambi i genitori rivolgono una benedizione alle proprie figlie: “Possa Dio ispirarti a vivere come Sarah, Rebecca, Rachele e Leah”.

Quando ero bambino, la nostra famiglia celebrava lo Shabbat insieme ogni settimana. Accendevamo le candele, recitavamo il Kiddush sul vino e mangiavamo challah dolce. Comunque, il mio ricordo preferito è quando mia madre e mio padre ponevano le mani sulle nostre teste, e nello spirito della nostra porzione della Torah di questa settimana, ci benedicevano con queste parole tradizionali.

Non è necessario essere un rabbino o un cantore per dare una benedizione. Abbiamo l’opportunità di creare questo ricordo caloroso e durevole ogni Shabbat quando poniamo le mani sulle teste dei nostri figli e nipoti (o in loro assenza di altri cari). Con questa benedizione, chiediamo a Dio di ispirarli a compiere atti di tikkun olam, e di vivere la gioia che fluisce dallo Shabbat e la saggezza che sgorga dallo studio della Torah.

Shabbat Shalom

Rabbino Goor e Cantore Kent

Shabbat Vayigash

I fratelli di Giuseppe si erano recati in Egitto per acquistare del grano. Giuseppe li riconosce, ma loro non riconoscono lui. Giuseppe accusa i fratelli di essere delle spie, prende in ostaggio suo fratello Simon e ordina gli altri di tornare dal loro padre Giacobbe - rimettendo nei loro sacchi, a loro insaputa, i soldi da loro spesi per l’acquisto del grano. Quando il cibo torna a scarseggiare a Canaan, Giacobbe rimanda i figli in Egitto, questa volta insieme al loro fratello Beniamino e con doni per Giuseppe, consigliando i figli di restituire i soldi che avevano trovato nei loro sacchi, dicendo: “Può darsi si sia trattato di un errore.” Arrivando di nuovo in Egitto, i fratelli vengono portati presso la casa di Giuseppe da un eish (un uomo). Terribilmente impauriti, i fratelli temono di essere accusati di aver rubato i soldi che avevano trovato. Tentano di spiegarsi, ma Giuseppe risponde: “Il vostro Dio ed il Dio di vostro padre deve aver messo un tesoro nei vostri sacchi per voi”. Una breve digressione. Un uomo entra in banca per riscuotere un assegno. Lo sportellista chiede all’uomo di firmare il retro dell’assegno ma lui si rifiuta. “Non lo farò e non mi potete obbligare a farlo”. Giunge il vice responsabile che spiega all’uomo che se lui firma il retro dell’assegno, loro saranno ben felici di farglielo riscuotere. L’uomo si rifiuta di nuovo. Giunge quindi il direttore di filiale per dare una mano, poi il vice presidente, finché l’uomo con l’assegno, insieme a tutto lo staff bancario che ha tentato di aiutarlo, giungono all’ufficio dell’amministratore delegato. Quest’ultimo chiede allo staff di andarsene e poi invita l’uomo a sedersi, lo guarda dritto negli occhi e gli dice: “Firma l’assegno oppure ti tirerò un pugno in faccia”. L’uomo firma. Tornando allo sportello, il primo sportellista chiede all’uomo: “Cosa è successo nell’ufficio dell’amministratore delegato? Le abbiamo chiesto tutti di firmare l’assegno ma lei si rifiutava.” “Oh,” rispose lui, “mi ha spiegato tutto.” Giacobbe: “Può darsi si sia trattato di un errore.” L’eish: “No.” In qualche modo Dio fu coinvolto in tutto questo. Ciò che potrebbe inizialmente sembrare un diversivo, un elemento trascurabile nella storia, risulta essere la Torà, che ci “spiega tutto”– una consapevolezza a cui Giuseppe giunge e che esprime in pieno nella parashah di questa settimana quando dice ai suoi fratelli: “Non siete stati voi a mandarmi qui, bensì Dio, ed il motivo era per salvarmi la vita.” Da notare però che il primo a dare “una spiegazione” è un eish, un uomo, una persona anonima, un personaggio alla apparenza insignificante di questa storia, proprio come Giacobbe in una parashah precendente aveva lottato contro un eish, ora Giuseppe - quando non riesce a incontrare i suoi fratelli – questi gli vengono portati da un eish. A volte i personaggi più inaspettati finiscono per giocare un ruolo importante nelle nostre vite, a volte sono loro che ci “spiegano tutto”, che ci permettono di adottare una prospettiva diversa, di vedere le cose da un punto di vista diverso. Queste “spiegazioni” – come il metaforico pugno in faccia - posso risultare scioccanti, ma possono anche permetterci di riplasmarci e, quando lo fanno, solitamente ci lasciano con una prospettiva migliore, maggiormente efficace e profonda nel nostro modo di pensare e fare le cose. Tornando a Milano, una nostra amica italiana, Cinzia, era solita iniziare i suoi sms che mandava a David con il saluto “tesoro”. Utilizzando questa parola indicava forse il valore che lei dava alla sua amicizia. L’intuito e la spiegazione dovrebbero essere considerati dei tesori, indipendentemente da chi ce li dona. E chi può dire che chi ce li donano, coloro che giocano il ruolo dell’eish per noi, non siano degli angeli mandati per aiutarci a trovare un senso nella nostre vite di tutti i giorni? Shabbat Shalom Rabbi Whiman

Shabbat Miketz 27 Dicembre, 2019

La porzione di Torà di questa settimana deve il suo nome alla prima parola ebraica introduttiva della parashah: Miketz , “Alla fine”. La lettura di questa porzione coincide con la fine del nostro anno secolare e, se non erro, anche con la fine di un decennio.

Il testo comincia con le parole miketz shenatayim yamim, “alla fine di due anni”, il faraone fece una serie di sogni in cui vacche grasse divoravano vacche magre, e secche spighe di grano divoravano spighe di grano mature. Questi sogni erano delle premonizioni del futuro riservato alla terra d’Egitto ed un’ingiunzione velata affinchè qualcuno prendesse in mano la situazione per preparare il paese a un difficile periodo. Il fatto che questo sogno continuasse a ripetersi fu sicuramente indice di una imminente catastrofe.

Per ciò che concerne i nostri tempi ed il nostro mondo, ci troviamo davanti ad uno scenario in cui il pianeta potrebbe trovarsi in mezzo ad una crisi climatica. Non possiamo ignorare il risultato di ricerche scientifiche che hanno dimostrato il costante rapido scioglimento dei ghiacci polari. La probabilità di un conseguente aumento del livello dei mari insieme a temperature sempre più elevate, e connessi casi di siccità, metteranno una pressione insostenibile sul nostro mondo. La possibilità di un disastro di questa portata è sempre più verosimile.

E il faraone si svegliò. V’yikatz paro - la stessa radice da cui proviene il titolo della porzione. La stessa parola usata per descrivere il patriarca Giacobbe quando si svegliò e si rese conto che Dio era in quel luogo e di non averlo saputo.

“Svegliarsi” nell’inglese contemporaneo è anche un termine politico che si riferisce al rendersi conto di quali siano i problemi cardine da affrontare. Viene dal gergo afroamericano. In ebraico, i verbi derivano dalla radice ktz (mikketz and yikatz) che può significare “svegliarsi” o ”finire”. I risultati delle ricerche scientifiche per ciò che riguarda il riscaldamento della crosta terrestre equivalgano per noi a quelli che, per il faraone, furono i suoi sogni. Se non ci svegliamo ed affrontiamo i pericoli imminenti e facciamo il possibile per migliorare la situazione, potremmo davvero trovarci dinnanzi alla fine della vita su questo pianeta, così come la conosciamo.

Alla luce dell’interpretazione dei due sogni da parte di Giuseppe, il faraone dice: “Dove posso trovare una persona su questa terra con la stessa saggezza e perspicacia di lui?”. Dove, nel nostro mondo, possiamo trovare persone con la saggezza e la perspicacia necessarie a guidarci in questo momento di crisi imminente?

Mi spiace dover terminare l’anno secolare con una nota così deprimente, ma la mia speranza per l’anno prossimo è che il genere umano sia presente sul nostro pianeta per moltissimi anni a venire.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman


Shabbat Vayeshev 20 Dicembre, 2019

Nella porzione di questa settimana incontriamo il giovane Giuseppe.La sua storia è forse quella più lunga nella Torah, ma in questo caso sappiamo solo che è un pastore, che è il figlio prediletto di Giacobbe, che i suoi fratelli lo odiano e che precedentemente aveva riportato dei debatam ra’ah su di loro a suo padre. Nelle varie traduzioni questa frase viene tradotta come “cattivo resoconto”, “resoconto malvagio” o (anche) “falso resoconto”.

Un midrash, commentato da Rashi, dice: “Giuseppe raccontò a suo padre qualsiasi cosa che percepì di sbagliato nei suoi fratelli, i figli di Lea: che mangiavano carne tagliata da un animale ancora vivo, che trattavano i figli delle serve con disprezzo, chiamandoli schiavi, e che erano sospettati di vivere vite immorali. Il midrash lascia aperta la veridicità di queste accuse. Potevano essere storie inventate con malizia, e infatti il passaggio continua dicendo che Giuseppe pagò il prezzo per ciascuna di queste storie. “Dato che Giuseppe li aveva accusati, dicendo che chiamavano i loro fratelli schiavi, venne venduto come schiavo. E dato che Giuseppe aveva accusato loro di immoralità, lui stesso venne poi accusato di immoralità dalla moglie del suo padrone.”

L’obbiettivo di questo insegnamento è ambiguo. Se le storie raccontate da Giuseppe fossero state vere, perché soffrì di conseguenze così negative per averle raccontate? D’altro canto, se le sue storie fossero state false, e le conseguenze meritate, che il midrash ci stia dicendo che ci sono conseguenze alle nostre azioni e chi ci sia al mondo una punizione “karmica”?

Gli esseri umani devono avere un po’ di fiducia nelle persone con cui condividono la propria vita. Ciò vale per parenti, i vicini, i colleghi e la comunità; se e quando questa fiducia va persa è raro che la si possa ritrovare. Quindi non c’è da sorprendersi se i fratelli di Giuseppe lo odiassero.

Il testo recita, v’lo youchlu dabro l’shalom – questo viene solitamente tradotto come ‘non potevano più parlare con lui in maniera pacifica”. Si, shalom significa pace, ma la parola assume anche un significato di “completezza” e “interezza”. Quindi ciò che potrebbe essere andato perso con i resoconti falsi di Giuseppe fu che i suoi fratelli non potessero più fidarsi di lui completamente.

E’ molto difficile, se non impossibile, stare insieme o lavorare con persone di cui non ci fidiamo, e la sfiducia può anche portare ad emozioni ben peggiori e distruttive. Se vogliamo la fiducia da parte degli altri dobbiamo esserne degni.

Una volta si diceva che la gente avesse il diritto di avere le proprie opinioni ma non la propria versione dei fatti. Questo concetto sembra ormai antiquato, ma quando certi fatti vengono cosi facilmente etichettati come falsi, quando le falsità prosperano smodatamente, quando le teorie cospirative suggeriscono che non tutto è ciò che sembra, diventa sempre più difficile sapere di chi, quando e di cosa potersi fidare. Il concetto stesso di verità è sotto attacco.

Il profeta Isaia espresse questo monito: “Attenzione a coloro che chiamano male il bene ed il bene il male, che scambiano oscurità per luce e luce per oscurità, che considerano amaro il dolce e dolce l’amaro.” Io aggiungerei verità per falsità e falsità per verità.

Perché se c’è un regolamento dei conti “karmico” in questo universo….

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

 

Shabbat Vayishlach 13 Dicembre, 2019

Nella porzione di Torah di questa settimana Giacobbe lotta contro un misterioso avversario. Che sia angelo, uomo, demone o forse la divinità personificata, il testo dà all’avversario di Giacobbe il nome eish, che significa uomo.

Concluso il combattimento, finito in parità, col sorgere del sole l’eish benedice Giacobbe, gli cambia il nome in Israele e aggiunge: “Poiché tu hai lottato con Dio e con gli esseri umani e hai avuto la meglio”. Può darsi che l’eish si stia identificando come Dio. Che questo sia vero o no, Giacobbe ne è convinto, dato che chiama il luogo dell’incontro “Peni’el” che significa “volto di Dio” e prosegue a spiegare: “Poiché io ho visto il volto di Dio, eppure la mia vita è stata risparmiata”.

Sia lo studio della Torà che la spiritualità ebraica sono state descritte e spiegate avendo in mente questo passaggio biblico. Il nome Israele – colui che combatte con Dio – conferma che la nostra tradizione è a corto di risposte definitive. Rabbi Abraham Joshua Heschel osserva con grande acume che nell’ebraismo: “il mistero della domanda aleggia al di sopra di ogni risposta”. Per gli ebrei il concetto di lotta e di ricerca hanno lo stesso peso del trovare e della fede. Sì, siamo un popolo che lotta.

Ora vorrei proporre qualche osservazione su come la Torà sceglie le metafore. Credo sia importante in questo caso.

Prima di tutto, ricordiamo che la lotta libera è uno sport in cui sono definite delle classi di peso del lottatore. Ogni lottatore combatte contro un avversario di simile o uguale peso e corporatura. Quindi il Dio contro cui lottate in un incontro teologico non è quell’entità infinita, onnipotente, creatrice dell’universo, ma un eish che possiede la vostra stessa altezza e peso che vi invita a sfidarlo sul ring.

Ricordatevi inoltre che il vostro avversario in questo caso non ha l’obbiettivo di distruggervi o uccidervi. Ci sono regole nella lotta libera. Non si può volontariamente ferire l’avversario, anche se è possibile farsi del male nel corso della lotta.

Notate inoltre che più profonda è la domanda che portare con voi sul ring, più lungo sarà l’incontro. Alcuni incontri possono durare, come a volte succede, un’intera vita. Il New York Times recentemente ha pubblicato un articolo dal titolo: “Erano innamorati ad Auschwitz. Ritrovatisi dopo 72 anni, lui si è posto la domanda: “E’ lei il motivo per cui sono ancora in vita?”

Quando si lotta contro Dio, è accettabile chiedere una sosta ogni tanto.

Ed infine, a volte anche i più grandi lottatori, in certi incontri, riescono al massimo ad ottenere un pareggio. L’obbiettivo non è sempre necessariamente vincere. Va bene anche raggiungere un accordo. Come Giacobbe, si può ricevere una benedizione se si riesce a durare abbastanza a lungo in un incontro.

E’ interessante che, nel verso sopra citato, la singola parola “tuchal” venga tradotta come ‘tu hai avuto la meglio”, il che è ovviamente legato ai concetti di vittoria, di trionfo oppure di persuasione, di controllo o di influenza; ma questo verbo ebraico viene spesso tradotto come “potere” o “essere capaci”. Quindi per ora ho scelto di leggere il verso in questa maniera: “Poiché tu hai lottato con Dio e con gli esseri umani e ne sei capace.” Mi immagino l’eish che dice: “Nell’ebraismo, la lotta libera con Dio è possibile, permessa, accettabile, tu sei autorizzato ed hai i mezzi per farlo.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayaitzei 6 Dicembre, 2019

Credo che Vayaitzei sia la mia porzione di Torà preferita. L’immagine di una scala che porta dal cielo alla terra. Angeli che salgono e scendono. Giacobbe che si desta dal suo sonno e pronuncia una delle frasi più veritiere in un libro pieno di versi memorabili. “Dio è in questo luogo,” dice Giacobbe, “ed io non lo sapevo.” Credo sia il precursore del più succinto acronimo di oggi, OMG.

C’è qualcosa di importante in questo verso che viene perso nella traduzione. Nella lingua ebraica il soggetto viene incluso nel verbo. Quindi quando in Genesi 28:16 leggiamo v’anochi (ed io) lo yadati (io non lo sapevo) troviamo un “io” superfluo in questo verso. La traduzione dovrebbe letteralmente essere, , “Dio è in questo luogo ed io, io non lo sapevo”. L’ebraico implica uno stridente senso di riconoscimento di ciò che prima era stato ignorato.

Immaginatevi una persona a cui viene concesso l’ingresso a Buckingham Palace per un’udienza con la regina, e nella presenza di sua maestà, si sdraia sul divano e si addormenta.

Dei diversi commenti offerti dalla nostra tradizione quindi, provate a leggere il verso in questa maniera:

Dio è in questo luogo ed io non lo sapevo, perché se lo avessi saputo, non sarei stato cosi maleducato da addormentarmi. In altre parole, la presa di coscienza del proprio contesto dovrebbe influenzare un comportamento consono.

In ebraico, la parola per un comportamento consono è derech eretz. Letteralmente significa “la via della terra”. Il termine rappresenta la via appropriata, rispettosa ed etica secondo cui una persona si dovrebbe comportare quando interagisce con gli altri.. E’come ci si dovrebbe comportare nel corso del cammino della propria vita. Vi è un intero trattato dedicato al derech ertez nel Talmud.

Derech eretz è ebraico. Nello Yiddish il suo equivalente è menschlichkeit. Essere un mensch significa essere una persona onesta ed etica che si impegna a fare sempre la cosa giusta in maniera onorevole e senza pretese. All’età di due anni mio nipote imparò a mettersi a sedere dritto da solo, e suo nonno disse : “Guardate Adam. Si siede proprio come un piccolo mensch.” Essere un mensch vuol dire essere retti.

Condividiamo il mondo insieme a milioni di altre persone. Le nostre interazioni con persone anonime e superficiali sono innumerevoli, ed il contesto del vivere in un mondo lesionante, a volte stressante e in continua trasformazione può portare anche la persona più dedita al derech eretz a perdere fiducia. O per dirla in un’altra maniera, menschlichkeit , non è sempre facile.

C’è un racconto di un sant’uomo, seduto sulle sponde di un fiume nel tentativo di salvare uno scorpione dall’annegare, ma ad ogni tentativo, lo scorpione tentava di pungerlo. I discepoli del sant’uomo chiesero: “Perché continui a provarci?” Lui rispose “Fa parte della mia natura salvare. Come è la natura dello scorpione di pungere. Perchè mai dovrei cambiare la mia natura se lui non cambia la sua?”

Il salmo 139 recita: “Dove me ne andrò lungi dal tuo spirito? e dove fuggirò dal tuo cospetto? Se salgo in cielo tu vi sei; se mi metto a giacere nel soggiorno dei morti, eccoti quivi. Se prendo le ali dell'alba e vado a dimorare all'estremità del mare, anche qui vi mi condurrà la tua mano, e la tua destra mi afferrerà.”

Ciò significa che Dio è in questo luogo, ogni luogo, ovunque. E se e quando ce ne rendiamo conto, saremo più portati a comportarci di conseguenza. Quindi il principio persiste. Quando si tratta del derech eretz, un riconoscimento di un contesto Divino pervasivo ci sarà sicuramente di aiuto.


Shabbat Shalom

Rabbi Whiman


Shabbat Toldot 29 Novembre, 2019

La matriarca Rebecca, come Sara prima di lei, non ebbe figli.

Quando finalmente rimase incinta, il parto fu molto difficile- al punto che Rebecca urlò “lamah zeh anoch”.

Una vecchia traduzione lo interpreta come: “Perché sono cosi?” Io interpreto il lamento come:

“Cosa ho fatto per meritarmi questo?” Una tipica domanda che ci poniamo in momenti di stress o di sofferenza.

La domanda stessa poggia sull’assunto che la sofferenza sia la conseguenza di aver fatto qualcosa di sbagliato.

Il Midrash interpreta questo passo in maniera diversa.

La domanda di Rebecca fu: “Se questo è ciò che ci vuole per dare alla luce dei figli, perché ero cosi ansiosa di averli?”

In altre parole, “Che cosa stavo pensando?” “Perché diavolo avrei mai voluto questo?”

Una domanda sicuramente comune quando si scopre che la cosa che desideravamo ardentemente

non porta quella felicità o soddisfazione che ci aspettavamo.

Una traduzione più recente e credo migliore è: “Se è cosi, perché esisto?”

Difatti più avanti nella parashà Rebecca si esprime in maniera simile quando dice ad Isacco, lamah li chayim?

“Come posso essere ancora viva?” Una domanda comune che ci poniamo quando, prima o dopo, raggiungiamo quel momento nella nostra vita in cui ci chiediamo: “Che senso o che funzione ha la mia vita?”

In Ebraico la risposta è l’kach nasartah, “sei stato creato per questo”.

Prima di entrare in politica, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman era socio di un’industria tessile, insieme al suo amico Eddie Jacobson. Nel 1948 durante il dibattito in corso presso le Nazioni Unite sulla creazione dello stato d’Israele, Eddie Jacobson andò dal presidente Truman per convincerlo a votare a favore. Eddie Jacobson (alcuni dicono fosse Chaim Weizmann) disse a Harry Truman, l’kach nasarta – “sei stato posto nel ventre di tua madre per questo sacro motivo”.

“In questo momento hai l’opportunità di giustificare e dare un senso alla tua esistenza dando sostegno

alla storica rifondazione di uno stato ebraico”.

Momenti di realizzazione come questi non necessitano necessariamente di un’importanza o di un impatto storici.

Ma, per ognuno di noi, ci sono momenti in cui - se siamo pronti a guardare oltre i nostri orizzonti di scetticismo–potremmo abbracciare il concetto che la nostra vita è al servizio di un qualcosa di più elevato, quando il significato di ciò che ci viene chiesto di fare va oltre l’ordinario, quando trascende la norma e il naturale.

Sono momenti come questi che portano un significato chiaro e lungimirante ai nostri giorni.

Lo storico inglese Paul Johnson scrisse un trattato sulla storia degli ebrei. Analizzò 4000 anni di sofferenze e fatiche e la sua conclusione fu la seguente: “Gli ebrei rimangono fortemente attaccati al concetto che la storia abbia un significato e l’umanità un destino”. Se ciò vale per un collettivo allora vale certamente anche per l’individuo.

Nel 1998, lo studente omosessuale Matthew Shepard fu derubato, torturato e lasciato a morire legato ad una staccionata.

Un altro studente, Aaron Kreifles in giro con la sua mountain bike lo trovò il mattino seguente e lo portò in ospedale, dove Matthew morì sei giorni dopo. Di quel giorno Kreifles scrisse: “La mia bici colpì una roccia e caddi.

Io non cado mai. Fu allora che vidi Matthew”. L’immagine di quel ragazzo picchiato a sangue rimase con lui per mesi.

“Continuavo a chiedermi: Perché? Perché sono caduto? Perché dovevo trovarlo io, soprattutto se sarebbe morto comunque?”.

”In fine concluse: Credo che Dio non voleva che Matthew morisse da solo. Ma perché dovevo essere io?”

L’kach nasartah. Sei stato creato per questo.

L’kach nasartah – tenetevi questa frase a mente per quando vi rendete conto che siete andati ben oltre il concetto di aver fatto la differenza o di aver compiuto una buona azione. Può darsi che abbiate portato avanti il lavoro di Dio ed il suo piano per il creato. Può esservi una realizzazione più sacra o più esaltante di questa?

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Chayei Sarah 22 Novembre, 2019

Nella porzione di Torà di questa settimana muoiono in successione, Sara, Abramo ed Ismaele. Sara visse fino a 127 anni, Abramo fino a 175 ed Ismaele fino a 137. Di Abramo, la Torà dice : va yamot b’savah tovah , “Mori’ ad una veneranda età”. E poi il testo ripete il pensiero : “zakain v’savayah”,  che viene tradotto come “pieno di vecchiaia” , oppure ‘vecchio e contento.’ Tradizionalmente, la ripetizione veniva intesa in primo luogo per la numerazione della quantità di giorni vissuti da Abramo, in secondo luogo per una indicazione della loro qualità.

Molti anni e capitoli dopo, Giuseppe porta suo padre Giacobbe in Egitto. Quando Giacobbe viene presentato al faraone, la prima cosi che gli viene chiesta é: “Quanti anni hai?”  Giacobbe risponde, “130, ma pochi e tristi sono stati i giorni degli anni della mia vita.”

Quindi cosa viene considerata una vita lunga e felice? Mentre mi trovo presto a raggiungere un altro compleanno divisibile per dieci e dato che ho avuto il privilegio di condividere la mia vita con diversi modelli di vita nel corso degli anni, mi sento abbastanza coraggioso per dare una risposta a questa domanda.  Cosa viene considerata una vita lunga e felice? Ovviamente vuol dire una vita di salute, con il minimo numero possibile di dolori e fastidi fisici, che vanno di pari passo alla longevità. Certamente anche una continua sicurezza economica. E’ inoltre una grande benedizione se si ha un compagno o compagna e amici di vecchia data - quelle persone che ci conoscono per quello che siamo e per chi eravamo. E’ bello essere circondati da persone con cui si può condividere dei ricordi. Una famiglia premurosa ma non troppo è sicuramente un vantaggio, ed è buona cosa trovare nuove sfide e diversivi durante il corso della propria esistenza.

Ma tenete conto che Abramo e Giacobbe ebbero vite molto simili. Entrambi affrontarono le stesse sfide e delusioni dell’infertilità della propria compagna, ebbero diversi problemi coi propri figli e subirono momenti di cambiamenti fisici e di difficoltà. Entrambi conobbero il dolore di una perdita personale. Entrambi avevano messo assieme una considerevole ricchezza sotto forma di bestiame, erano molto stimati dai loro vicini, e ricevettero ottime cure nel corso della vecchiaia e si trovarono in prossimità di un Dio che camminò con loro e li benedì durante il corso delle loro vite. Quindi perché Abramo trovò la felicità nella propria vita e Giacobbe no?

 Credo che occorra notare che la valutazione positiva della vita di Abramo è fatta da terzi, il narratore della storia in questo caso, e non da Abramo stesso. Giacobbe invece dà una valutazione personale di tutto ciò che gli era capitato nel corso dei suoi giorni. Quindi ciò che dall’esterno potrebbe sembrare “bello” potrebbe non esserlo dal punto di vista della persona che valuta la propria vita.

Rileggendo i capitoli che descrivono la vita di Abramo, rimasi colpito dalle innumerevoli istanze in cui il testo recita: “E Abramo passò oltre.” Non solo in senso geografico, ovvero dal punto A al punto B, ma più nel senso che, dopo aver assorbito lezioni, benedizioni ed opportunità di una fase della propria vita, egli passava a quella successiva. Forse la prospettiva viene dalla realizzazione che ogni fase della nostra vita ha o ha avuto le sue gioie e delusioni, che non si può solo vivere nel passato e che lo speranzoso pensiero di cosa ci riserverà il futuro porta con sè al fine una sensazione di contentezza. Una parte di una mia vecchia canzone preferita recita: “Ogni nuovo inizio viene con la fine di un altro inizio.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Vayeira 15 Novembre, 2019

“Noè era un uomo retto, senza colpe nella sua generazione.” Da subito la Torà ci rende note le qualità di Noè e ci spiega perché Dio volesse che lui e la sua famiglia entrassero nell’arca. Non si può dire lo stesso di Abramo. Inizialmente non ci viene detto perché Abramo fu scelto né quale fosse il motivo del suo necessario trasferimento a Canaan. Ci vengono solo dette le promesse e le conseguenze nel caso Abramo fosse stato fedele al richiamo di Dio – diventerà il famoso padre di una grande nazione ed una benedizione - ma non sappiamo perché Dio vuole che vada o perché Abramo fu scelto per questa missione.

Le risposte a queste domande si possono trovare sette capitoli più tardi, nella porzione di Torà di questa settimana, all’interno della storia di Sodoma e Gomorra.

Dio vuole distruggere queste due malvagie città, ma dice: “Devo tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare? Poiché io l'ho scelto perché egli obblighi i suoi figli, e la sua famiglia dopo di lui, a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso” Da questo segue che forse furono le capacità di insegnante che catturarono l’attenzione di Dio. Sembra che Dio abbia un debole per gli insegnanti. Da notare che sono la giustizia e la correttezza le materie da insegnare, e il fare e il mantenere le capacità da apprendere. E ovviamente più difficile sono le materie, più capace dovrà essere l’insegnante.

Scommetto che tutti abbiano avuto tre, o se fortunati, almeno cinque grandi insegnanti nel corso della nostra vita. I vostri insegnanti, i cui nomi ricorderete anche oggi, sono coloro che vi hanno aiutato a vedere ed a pensare in modo diverso, coloro che vi hanno aiutato a sviluppare le capacità necessarie ad avere successo nella vita. A volte non era nemmeno ciò che vi hanno insegnato ma come lo insegnavano. Come se fossero un tutt’uno con la propria materia. Spesso i nostri migliori insegnanti non sono nemmeno quelli scolastici o universitari. Genitori, amici, parenti e colleghi sono spesso coloro che ci istruiscono meglio sui valori essenziali della vita.

In un corso su come aiutare il clero a migliorare la propria efficacia a livello pratico, la mia classe fu brillantemente istruita su come una difesa sostenuta della propria posizione, senza indagare sul modo di pensare o di ragionare dell’altro, spesso portasse ad un esito tutt’altro che ottimale. Nello studio di un caso dopo l’altro, la nostra professoressa continuava a puntualizzare allo studente “Difesa. Nessuna indagine”. Quando la professoressa presentò un caso problematico frutto della sua esperienza, mi sentii in dovere di dire che, non indagando sul modo di ragionare dell’altro, lei aveva fatto la stessa cosa contro cui aveva cosi spesso inveito. Invece di offendersi per la mia presunzione, la professoressa fu contentissima. “Ah,” disse. “Lo studente è diventato insegnante. Fantastico.”

Se Abramo fu scelto per la sua abilità di insegnare, allora nella porzione di questa settimana ha davanti lo studente più difficile di tutti, quando osa insegnare “la via del Signore” a Dio in persona. Se Dio scelse Abramo per agire con “giustizio e diritto”, allora la lezione si rivolge a Colui che lo ha scelto per insegnarla, dato che Abramo difende la gente potenzialmente innocente di Sodoma e Gomorra. “Lungi da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te!” dice Abramo; e aggiunge, “Il giudice di tutta la terra non farà egli giustizia?”. Qui l’allievo supera il maestro, e mi immagino Dio esclamare: “Fantastico.”

Abramo rappresenta l’insegnamento che a sua volta deve insegnare, una lezione che continua ad istruire i suoi discendenti col susseguirsi delle generazioni: la via dell’Eterno è fatta di atti di giustizia e la messa in pratica di ciò che è giusto.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman


Shabbat Lech Lecha 9 Novembre

Dio parla con Abramo in diverse occasioni durante il corso della porzione di Torà di questa settimana. In solo un’occasione, il testo utilizza la formula vayomer adonai – “e Dio disse”. L’eccezione compare all’inizio del capitolo 15 quando devar adaonai el Avram – “la parola del Signore giunse ad Abramo”. La singolarità di questa espressione è importante per due motivi.

Primo, il messaggio: “Non temere”.

Il timore può essere un’emozione “prudente”. Una sana dose di apprensione può essere d’aiuto di tanto in tanto. Ci dona un senso di prudenza. I rabbini ci mettono in guardia: mai sfidare l’angelo della morte. Ci sono motivi legittimi nell’evitare rischi non necessari. La vita può essere già pericolosa di suo. Non c’è bisogno di nuotare volontariamente tra gli squali.

Però il timore, portato all’estremo, può portare una persona a non realizzare il proprio potenziale. In un modo o nell’altro la vita è fatta di rischi.

Una mia amica una volta mi parlò del suo timore nell’attraversare la strada a Washington DC. Macchine in ogni direzione. Mi raccontava che si atteneva alle isole di traffico a tutti i costi, con la costante paura di buttarsi nel mezzo, aspettando fino all’ultimo minuto prima di lasciare il marciapiede. Fino a che un giorno immaginò di essere investita sull’isola di traffico, con un conseguente titolo sui giornali che recitava: “Pedone investito, secondo la polizia stava attraversando irregolarmente”.

Abramo lascia la sua terra natia, la casa di suo padre, verso una destinazione ignota, tutto questo per via di un richiamo da parte di un Dio sconosciuto ed impossibile da conoscere. Questo sì che è un rischio! Ma la verità è che anche noi abbiamo il compito di compiere questo viaggio in nome della medesima divinità il giorno in cui nasciamo. Vivere vuol dire rischiare ed andare incontro ad un destino impossibile da conoscere a priori. Come e dove arriveremo è un mistero che rimarrà insoluto finché non raggiungiamo gli ultimi giorni della nostra vita. Quindi il messaggio rimane: “Non temere”. La tua vita è fatta per essere vissuta appieno.

In secondo luogo credo che l’espressione “e la parola del Signore giunse ad Abramo” sia l’indicazione da parte della Torà che ciò fosse qualcosa che il patriarca immaginò per se stesso. Non gli giunse inizialmente ma, come la mia amica di Washington DC, col tempo; comprese che non vi è nulla di sicuro in vita e che, molto spesso, il rischio è l’unica opzione per cui valga la pena o lo sforzo.

Non temere, altrimenti non raggiungerai mai la Terra Promessa e neanche l’altro lato della strada.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Parasha Noach - 1 Novembre

E il Signore disse a Noè “Costruisci un’Arca di legno di Gofer; falla a stanze, e spalmala di pece, di fuori e di dentro. E questa è la forma della quale tu la farai: la lunghezza di essa sia di trecento cubiti, e la larghezza di cinquanta cubiti, e l’altezza di trenta cubiti.

(Genesi 6:14-15)

In seguito a tutto ciò, il Signore chiamò nuovamente Noè dicendo: “Dov’è l’arca che ti ho ordinato di costruire?” E Noè rispose: “Perdonami, Signore, ma il mio appaltatore ha fatto confusione. La pece che mi hai comandato di utilizzare per impeciare l’arca di fuori e di dentro è stata consegnato all’indirizzo sbagliato, e il tipo che lavora al deposito di legname non sa cosa siano i cubiti. Sto cercando di fare del mio meglio.”

Il Signore si adirò e disse: “Così sia. E fai entrare nell’Arca una coppia di ogni animale per conservarli in vita teco, la terra è piena di violenza (hamas) ed io la distruggerò” (Genesi 6:11)

Ma così non fu. “Reboynah shel oylam, Signore dell’universo,” disse Noè “Ora i conducenti dei carri stanno scioperando. Gli uccelli di campagna si muovono solo a dozzine. Inoltre un gorilla maschio è impossibile da trovare, e credi sia facile trovare un idraulico durante il fine settimana? Signore, Signore, cosa posso fare?”

Il Signore non diede risposta, ma si pentì del suo piano di distruggere l’umanità. Gli esseri umani sembravano più che capaci di farlo da soli.

Non troverete questa storia nel Midrash, ma è comunque è una vecchia storia. Un racconto di frustrazione, irritazione ed esasperazione. Per tutte le cose che non vanno per il verso giusto, che vi fanno arrabbiare e che vi danno fastidio e provocano quel tipo di rabbia momentanea che non è tipica del vostro carattere. E’ una storia che racconta quegli eventi che portano allo stress che vengono dal vivere un’esistenza socialmente inter-connessa e inter-dipendente.

David mi ha raccontato la storia in cui lui si trovava dietro ad una signora in un emporio di alimentari. La signora stava urlando al cassiere, utilizzando un linguaggio scurrile e pieno di insulti. Quando David le chiese come mai si stesse comportando cosi, lei si scusò dicendo: “Ho prenotato un pranzo per 20 persone, e la persona che doveva aiutarmi non si è presentata”.

Nella porzione di Torah di questa settimana, Dio è preso dallo sconforto nei confronti del genere umano perché hanno riempito il mondo di hamas – solitamente questa parola viene tradotta come “mancanza di leggi”. Non sono in realtà sicuro che sappiamo esattamente cosa significhi hamas; ma, se Dio lo ritenne motivo per portare a termine l’esistenza umana, non era sicuramente qualcosa di buono. E’ interessante che nella porzione di Torah di settimana prossima, quando la moglie di Abramo, Sara, la matriarca, viene insultata dalla sua serva, Hagar, ella utilizzi la stessa parola per descrivere questa situazione quando ne parla con Abramo. “Hamasi, la mia hamas è causa tua.”(Genesi 16.5) Non credo che le due situazioni abbiano ugual peso o conseguenze. Ma cosi è. Quante volte sentiamo che certe situazioni fastidiose ed irritanti siano “la fine del mondo”.

Quando reagiamo spropositatamente alle piccole cose, ci viene facile ignorare la dignità altrui, e così facendo perdiamo la nostra al contempo. La frustrazione è, beh… frustrante; ma una persona può irritarsi e resistere alla tentazione di comportarsi in maniera disumana. Se abbastanza persone perdono la pazienza sarà la fine della vita civilizzata su questa terra, e lo sappiamo bene.

La mia amica Ellen ebbe a che fare con un inquilino alquanto difficile che aveva preso in affitto il suo appartamento. Costui tendeva ad esagerare nelle sue lamentele. Ce ne furono diverse di lamentele, e lui tendeva a comunicarle in maniera drammatica. In fine quando descrisse “disastroso” una decolorazione della boiacca delle piastrelle del bagno, Ellen mi disse, “E’ diventata una mia missione aiutare questo giovane nel distinguere fra tragedia e fastidio.”

Amici, ogni tanto dobbiamo riprenderci. Fare un respiro, rilassarci. Perché, proprio come il nostro agente di viaggio ci disse prima del nostro viaggio in India, “Non tutto andrà per il verso giusto". Perciò quando vi sentite sul punto di esplodere, quando una macchina vi taglia la strada nel traffico, oppure state aspettando quella consegna che vi era stata promessa settimane fa, fate un respiro. Contate fino a dieci. Non viviamo in Siria; e dopo tutto si tratta per la maggior parte di boiacca delle piastrelle.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Berashit 25 Ottobre, 2019

C’è un uomo nel Vermont che crea dei puzzle. Sono cose intricate e bellissime, fatte con ironia, con un senso artistico e con umorismo. Il mio preferito è quello che può essere assemblato in quattro maniere diverse, con tre di queste maniere che non possono essere completate. Non è possibile incastrare l’ultimo pezzo, e lo spazio lasciato nel mezzo del puzzle forma la sagoma di un diavolo. Può solo essere capito a fondo quando si sono messi assieme tutti i pezzi.

Lo stesso vale per le feste ebraiche autunnali. Giungono in modo rapido e tempestoso con la nuova luna del Tishrei, ognuna di esse rappresenta un pezzo necessario a comporre un puzzle finale. In altre parole, l’ebraismo è qualcosa che necessita di un assemblaggio.

In primis abbiamo Elul, il mese che precede Rosh Ha-shanah, un momento di preparativi e di analisi. Con l’arrivo del giorno del giudizio, ciò che abbiamo fatto viene giudicato. Shabbat Shuvah ci consiglia di riprendere la via della rettitudine e della benedizione. A Yom Kippur cerchiamo penitenza e perdono. Queste quattro feste rappresentano un’analisi introspettiva. Il nostro dovere spirituale è personale. Queste feste hanno una forte caratteristica di sobrietà e serietà.

Poi arriva Sukkot, la festa della gioia. Ora possiamo guardarci da fuori e ci vediamo nel contesto dell’universo, con un Dio così vasto che va oltre la nostra immaginazione e comprensione. Ci si posiziona all’interno dell’immensità del creato. Per questo il tetto della sukkah deve essere a cielo aperto. Ora, non tutto ruota attorno a noi. Ma appena iniziate a sentirvi insignificanti, giunge Simchat Torah, che ci insegna che il Dio infinito del creato si posizione in un rapporto intimo ed amorevole con voi e la vostra comunità. Simbolo e dimostrazione di questo è il rapporto con la Torà.

Perciò danziamo. Perché ora tutti i pezzi del puzzle vanno insieme. Tutto parla di noi ma non solo di noi. È qualcosa che fa riflettere ma è un emozione esilarante allo stesso tempo. Necessitiamo di tutti gli elementi-penitenza, introspezione, gioia, rapporto e contesto - per ottenere un quadro dell’ebraismo e di cosa rappresenta.

La Torà dice che colui che non osserva Yom Kippur si isola dalla gente. Forse è per questo che così tante persone si palesano alla fine del giorno della penitenza. Ma ciò che so per certo è che se perdete l’occasione di osservare e festeggiare tutte le feste, TUTTE, avrete un puzzle fatto a metà e quindi una visione incompleta per ciò che concerne quello che la vostra fede vuole farvi sapere di voi e della vostra comunità

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Chol Ha’moed Sukkot 18 Ottobre, 2019

Nel corso degli anni ho scoperto di avere un rapporto di amore e odio con Sukkot. Durante il periodo in cui lavoravo a Boston era la mia festa preferita. Nel New England Sukkot è una festa autunnale al 100%, l’aria è fresca, le mele sono croccanti e la luce del sole diventa deliziosa. Puoi passare delle ore ad oziare “nella tua capanna” e non stai buttando via del tempo. A Houston, dove ho lavorato per diversi anni, temevo l’arrivo di Sukkot. Nel Texas l’estate si protrae ben oltre Ottobre. Quando giunge questa festa la temperatura è ancora elevata, l’umidità è pazzesca e le zanzare sono fameliche. Passare anche solo 10 minuti in una sukkah a Houston equivale ad una punizione. 

Indipendentemente da dove vi trovate, la Torà considera questa festa come he-chag, la festa per eccellenza; ed il nostro libro di preghiere la definisce come zeman simchatynu, la stagione in cui rallegrarsi. Quindi, se Rosh Hashanah vuol dire giudizio e Yom Kippur vuol dire penitenza, Sukkot vuol dire gioia. In seguito al pesante esame di autovalutazione che ci catapulta nell’anno nuovo, è una consolazione potersi concentrare sulla felicità. 

In Israele, nell’antichità, Sukkot rappresentava l’ultima festa avente come tema il raccolto. Tutto era stato raccolto e, in quanto popolo agricolo, ciò era motivo di giubilo, di libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni. Nel Levitico, la Torà ci ordina “Prendete i rami di una palma, le foglie di mirtillo e salice, e il frutto di un albero (lulav ed etrog) e giubilate dinnanzi al Signore per sette giorni”. Il motivo per cui queste quattro specie di flora siano motivo di giubilo e dovrebbero portare gioia, francamente mi sfugge. Forse queste quattro specie sono una scusa per considerare le domande : “Cos’è la gioia?” e “Quali sono quelle cose che portano vero piacere in vita e nella nostra quotidianità?” 

Felicità e gioia non sono la stessa cosa. Entrambe sono emozioni degne e positive. La felicità deriva da persone o cose esterne ed è spesso causata da altre persone, luoghi, pensieri e cose. Di conseguenza, tende ad essere momentanea e viene da una contentezza a breve termine. La felicità è passeggera. È situazionale. La gioia d’altro canto è indipendente dalle circostanze del momento. Viene da dentro. La gioia nasce quando facciamo la pace con noi stessi, con quello che siamo e come siamo. 

È interessante che l’ebraico abbia ben 10 parole per la sola parola “gioia”. Vedo questo fatto come indice che l’ebraismo prevedeva che avremmo avuto una tale abbondanza di gioia da aver bisogno di dieci parole per descrivere le variazioni, sottigliezze e sfumature per ciò che concerne questa emozione. La gioia è sicuramente un concetto difficile da considerare. E se ci pensiamo: come si può comandare a qualcuno di essere gioioso? Così facendo, non sarebbe un’emozione finta?

Nella spesso ripetuta seconda parte dello Shema, la v’ahavtah, ci viene detto: “Amerai il Signore, tuo Dio”. Quando gli viene chiesto come qualcuno possa amare qualcosa o qualcuno a comando, Martin Buber spiega che l’unico risultato ragionevole e prevedibile di una vera comprensione di Dio sia di provare amorevole adorazione. Il concetto non è il medesimo per ciò che riguarda altri esseri umani. L’ingiunzione, “Ama il tuo prossimo come te stesso” è meglio tradotta come “Agisci in maniera amorevole verso il tuo prossimo” anche se questi ti è antipatico. 

Quindi, come può la Torà comandarci di gioire? La gioia è amore. Nella Sukkah – perdonati e riconciliati con il Creatore, circondati da un’abbondante raccolto, dai propri cari ed da ospiti, riposandovi dalla stanchezza e lo stress del vostro lavoro — il risultato prevedibile e ragionevole dovrebbe essere gioia. Ma oltre queste benedizioni vi è di più. Se alzate il volto verso il cielo dalla vostra capanna, e scorgete la vastità e infinità dei cieli, come si può non provare gioia che il Padrone e Creatore del cielo e della terra abbia attenzioni per voi? E non solo mere attenzioni, ma piene di amore e dedizione. È un sollievo sapere che non dipendo completamente da cosa gli altri dicono o scrivono sulla mia pagina Facebook per sentirmi meglio. Dovrebbe essere come descritto nel libro del  Nehemiah: “La gioia del Signore è la tua forza.”

 Chi, perché e cosa siamo? Sukkot ci dà la risposta: un po’ meno che angeli, ma dotati e sostenuti da un’inalienabile dignità e valore. E se potete tenere questo concetto a mente, il sapere che la Fonte dell’Universo gioisce del vostro essere voi stessi, potrete emergere gioiosi dalla vostra Sukkah o comunque rafforzati e pronti per le sfide della vita. 

Chag Saeach. Felice, o meglio ancora, abbiate un Sukkot gioioso.

Rabbi Whiman

 

Shabbat Shuvah 4 ottobre 2019

Nell’imminente Giorno dell’Espiazione confesseremo i nostri peccati. Reciteremo una vera litania di trasgressioni. Ashamnu, bagadnu, dibarnu dofi. Abbiamo peccato. Abbiamo trasgredito. Abbiamo preso la strada sbagliata. Il libro delle preghiere lo chiama il catalogo dei dolori.

Nonostante qualcuno possa non essere d’accordo, trovo grande significato e, sì, perfino saggezza in questa deprimente enumerazione di azioni commesse e non commesse. Poiché che altro è questo catalogo dei nostri fallimenti se non la fotografia in negativo, l’immagine al contrario di come ci si aspetta che conduciamo le nostre vite? Sì, confessiamo indifferenza, disonestà, irresponsabilità. Il che significa solo che ci viene comandato di essere onesti, responsabili e compassionevolmente preoccupati dei bisogni degli altri.

Ma perché dipingere l’immagine in toni tanto cupi? Perché non evidenziare il positivo e la nostra capacità di raggiungere risultati elevati? Non sarebbe meglio fare appello ai nostri istinti superiori? La risposta a questa domanda è no.

I nostri saggi hanno scritto dello yetzer, un’energia umana straordinariamente primordiale, e hanno parlato di due impulsi, due pulsioni dentro di noi. Una, lo yetzer tov, è la nostra buona inclinazione, mentre l’altra è l’inclinazione al male, lo yetzer hara. E i rabbini hanno aggiunto che l’inclinazione al male ha 13 anni più di quella buona. In altre parole, l’inclinazione al male è presente virtualmente dalla nascita. L’inclinazione al bene appare molto più tardi.

Il problema è che l’impulso a cedere allo yetzer hara è forte. La buona notizia è che siamo in grado di vincere questo impulso e spesso lo dominiamo. La notizia migliore è che, anche dopo aver ceduto allo yetzer hara, siamo in grado di crescere e cambiare, e quando lo facciamo la nostra tradizione lo chiama tshuvah, pentimento, ritorno. Questo Shabbat è conosciuto come Shabbat Shuvah, lo Shabbat del Ritorno.

L’espiazione e il ritorno, tuttavia, si basano sulla nostra capacità di riconoscere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e di vedere dove e come ci siamo smarriti. Per questo motivo Yom Kippur ci fornisce un catalogo di errori ed evidenzia tutto ciò in cui abbiamo fallito.

I nostri saggi insegnano che l’arma più grande contro l’impulso malvagio è la Torah. La Torah qui è da intendere come una bussola morale che descrive un ordine di vita che non deve essere violato. Ci sono azioni che non devono essere compiute. L’elenco di tali azioni costituisce i dettagli della nostra confessione di Yom Kippur.

Alcuni anni fa ci fu un incontro di pugilato a New York. L’ex campione dei pesi massimi George Foreman era presente, e quella notte nell’arena si scatenò l’inferno. I pugili, i loro manager, perfino gli spettatori sugli spalti iniziarono a picchiarsi l’un l’altro. Ci vollero 150 poliziotti per riportare la situazione sotto controllo. Quella notte George Foreman ebbe un ruolo importante nell’aiutare a ristabilire l’ordine. Era in piedi sul ring, una presenza alta, possente e imponente, e quando qualcuno stava per iniziare a fare qualcosa di distruttivo, Forman si limitava a guardarlo e diceva con calma: “Non vuoi farlo. Non vuoi farlo”.

Un mondo con la Torah ha una luce guida, un messaggio ripetuto continuamente che dice, rispetto a certe cose: “Non vuoi farlo”. E se lo fai, sei tenuto a provare senso di colpa e rimorso e perfino vergogna. Per questo la nostra confessione è formulata in modo negativo. Certe cose sono inaccettabili, e se hai commesso tali cose hai bisogno di pentimento, perdono e ritorno. Un mondo con la Torah è un mondo in cui, quando abbiamo violato la legge morale, lo sappiamo.

La grande tragedia dei nostri tempi è che così tanti hanno negato la distinzione tra il bene e il male. Quando tutta la virtù è relativa, lo è anche il vizio. Ma Yom Kippur viene per dirci che ci sono cose che non dobbiamo fare. I principi sono semplici. Applicarli può essere difficile.

 In questo periodo siamo chiamati ad applicare i principi alle nostre vite, perché i principi sono giusti, e a non abbandonare mai i principi solo perché lo sforzo è duro.

Perché? Perché voi ed io abbiamo la capacità di fare molto bene e molto male. Ciascuno di noi continua ad essere un campo di battaglia tra yetzer tov e yetzer hara. Abbandonare i nostri principi, la nostra bussola morale, significa cedere all’inclinazione malvagia, e io sono qui per dirvi: “Non volete farlo”.

 Shabbat Shalom

g’mar chatimah tovah.

Possiate ricevere un sigillo finale di benedizione nel Libro della Vita.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Nitzavim 27 Settembre, 2019

Shehecheyanu V’keyamanu V’higianu La-zeman Ha-zeh. Che tu sia benedetto, signore Iddio che ci hai dato il dono della vita, che ci hai sostenuto e ci hai permesso di arrivare a questo giorno.

Questa é la berachah, la benedizione per nuovi inizi. E’ la benedizione che l’ebraismo ci invita ad usare per le “prime volte” nelle nostre vite. Quando mangiamo i primi frutti della nuova stagione. Quando indossiamo un vestito per la prima volta. Quindi é la benedizione perfetta per Rosh Hashanah.

Con l’inizio di un nuovo anno, è la vita a preoccuparci. Più volte durante questa stagione recitiamo la seguente preghiera : Zocreinu L’chayim – Ricordaci in vita, o Signore che ci allieti in vita e inseriscici nel libro della vita, o Dio della vita.

Il filosofo Ortega y Gasset una volta scrisse: “Quando nasciamo, siamo come sonnanbuli buttati sul palco.La vita poi diventa un problema che va continuamente risolto.” Nessuno di noi ha mai chiesto di nascere. La vita è qualcosa che capita indipendentemente da noi. Ma per un ebreo, la vita non é un problema. E’ un dono. E’ come vincere alla lotteria. E’ una benedizione che va festeggiata, valorizzata e apprezzata in pieno. Bisogna dire che questo modo di essere può non risultare facile da mantenere.

La vita si può anche manifestare con una serie di difficoltà e sfide. Woody Allen una volta scrisse che il suo grande rimpianto era non essere nato qualcun altro, e sospetto che questo sia un rimpianto che abbiamo avuto anche noi. Chi è quella persona che si trova completamente soddisfatta del proprio aspetto, corpo, conto in banca o QI? Vediamo cosa hanno gli altri, ciò che hanno realizzato, le loro fortune e anche noi ci troviamo in quella posizione di voler essere qualcun altro.

I rabbini chiedono, “Chi può essere considerato ricco?” La loro risposta: “Colui che é contento di ciò che ha”.

Secondo questa definizione, la persona più ricca che abbia mai conosciuto era un uomo di nome Bud Fisher. Nonostante avesse riscontrato dei problemi durante il corso della sua vita, Bud era felice. Felice da bambino per essere nato. Felice del suo nome di battesimo, che in realtà era Julius. Felice della sua famiglia, della sua città, della sua scuola. Era felice di lavorare nel campo alimentare. Felice di essere sposato e dei suoi figli. Felice di aver seguito la sua vocazione e le sue passioni. Verso la fine della sua vita, Bud soffri di una serie di attacchi di cuore che lo indebolirono, ma Bud continuò a stupire i medici, nel continuare a vivere. La sua spiegazione era questa : “Nella Torah, al principio, Dio vide tutto il creato ed era cosa buona. Beh io e Dio la vediamo allo stesso modo, ed entrambi vogliamo che io continui a vivere il più a lungo possible.”

Al principio, Dio osservò il creato e vide che era v’hinay tov m’ohd –cosa molto buona. Credo che questo sia come Dio si senta quando chiunque di noi nasce. Se solo riuscissimo a condividere la visione che Dio ha della nostra vita, probabilmente riusciremmo a toccare con mano i doni e le benedizioni che ci sono state date.

Si, la vita può essere piena di sfide ed è per questo che alziamo i calici e auguriamo ai nostri cari ed ai nostri amici un anno buono e dolce, e lo facciamo con le seguenti parole, L’chaim. L’chaim. Alla vita.

Shabbat Shalom e vi auguro un shanah tovah u’metukah

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Tavo 20 Settembre, 2019

Dalla porzione di Torà di questa settimana : “Avete affermato oggi che il Signore è il vostro Dio…e Dio ha affermato che voi siete il suo popolo prediletto. (Deuteronomio 26:17-18)

La parola “affermato” è una di una miriade di traduzioni dall’ebraico. Troviamo anche “dichiarato”, “riconosciuto”, “scelto” e “promesso”. In ebraico è una forma del verbo “dire” o “parlare”. La stessa parola che viene utilizzata più volte nel racconto della creazione : “E Dio disse “Che sia fatta…e cosi fu.”

Nell’ebraismo ci viene ricordato più volte il potere che hanno le parole. Hanno la capacità di definire, nominare, chiarire, creare e di fare molti danni. Con l’arrivo delle festività sacre ci viene chiesto di riflettere su come abbiamo utilizzato questo grande potere e il potenziale delle nostre parole.

Ci sono diversi aforismi rabbinici che ci mettono in guardia dalle parole. “Le parole sono come frecce. Una volta scagliate, non possono essere richiamate.” “Cosi potente è la lingua, che viene tenuta dietro a due cancelli, i denti e le labbra. Meglio tenere serrati entrambi.”

La lista integrale di confessioni di Yom Kippur contiene cinquantaquattro tipi di trasgressioni. I peccati verbali sono molto numerosi in questo elenco.

Spergiurare, spettegolare, calunniare e mal rappresentare. La lista è lunga.

Nell’anno appena passato non riesco a pensare ad un’occasione in cui feci del male fisico a qualcuno, ma mi ricordo situazioni in cui delle parole che ho espresso in malo modo hanno ferito qualcuno, e altre circostanze in cui la mancanza di una parola di conforto o di consiglio hanno senza intenzione causato ancor più dolore. Credo di non essere il solo.

Per il peccato commesso per parole dette o non dette ci viene consigliato di cercare e chiedere perdono. In un momento di accesa discussione abbiamo tutti detto cose di cui ci siamo poi pentiti. Ed è però grazie a questa stessa azione di esprimerci che, in una situazione del genere, possiamo formulare delle scuse e cercare di fare pace con il nostro prossimo. Con le nostre parole possiamo incoraggiare, dare sostegno, rincuorare e rallegrare gli altri. Purtroppo, sono in tanti che oggi sperano in parole di lode, affermazione, accettazione o amore - parole mai ricevute ma comprensibilmente aspettate da coloro a cui siamo legati da rapporti di famiglia. Il silenzio non è sempre d’oro.

Sotto il baldacchino cerimoniale, due sposi si promettono l’uno all’altra e creano una casa con il pronunciare di loro parole che legano insieme le loro vite. I versi biblici sopraccitati sottolineano anche il potere della parola nel creare e legare. L’affermazione - l’esprimere parole l’uno verso l’altro - crea un rapporto, un legame, un patto tra Dio ed Israele. Lo stesso vale per qualsiasi comunità. Il modo in cui ci parliamo o in cui tratteniamo le parole-in strada, in un negozio, al telefono o in internet-determinerà in gran parte il tipo di mondo in cui vivremo e che aiuteremo a creare.

Che quel mondo sia uno di benedizioni, dove le parole pronunciate dalle nostre bocche e le mediazioni dei nostri cuori ci leghino in rapporti reciproci di amore, premura e rispetto.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Ki Teitzei 13 Settembre, 2019

Nella lettura della Torà di questa settimana ci viene presentato un lungo elenco di leggi e statuti – più mitzvot che in qualsiasi altra porzione del pentateuco. Alcuni comandamenti sono eticamente giusti. Alcuni sono curiosi e altri potrebbero sembrare addirittura barbarici. Cosa dovremmo pensare di passaggi che comandano la lapidazione di bambini pestiferi e di flagranti adulteri? Ordini che, secondo la Torà, sono necessari per estirpare il male dal mondo.

Secondo la tradizione ebraica, il pentateuco in forma integrale fu dato a Mosè sul monte Sinai - in parte in forma scritta (I dieci comandamenti), il resto oralmente e poi trascritto da Mosè stesso – con anche la parte finale del Deutoronomio che descrive ciò che succede dopo la morte di Mosè . L’autorevolezza del testo poggia sulla sua fonte divina e sulla fiducia che abbiamo di avere la versione uguale a come era stata originalmente creata dall’alto. In breve, questo è un punto di vista ortodosso della Torà.

Al seguito della comparsa dei rabbini - diversi secoli dopo gli eventi sul Sinai – vi fu un intera serie di commenti attorno al sacro testo. I saggi non potevano riscrivere la Torà, ma la potevano interpretare. Quindi, quando con preoccupazione si trovarono di fronte a un testo apparentemente barbarico (come lo considero io, ma loro non si furono mai espressi in questo modo), decisero di rendere praticamente impossibile la messa in atto di questa ingiunzione, tramite una serie di pre-codinzioni. Oppure insisterono che il testo non poteva voler dire ciò che sembrava significasse. La loro sfida era liberare il testo dai suoi vincoli temporali e di luogo in cui era stato donato e riuscire a tener fede al suo spirito sacro e autorevole allo stesso tempo.

L’ebraismo liberale ha una diversa serie di sfide per ciò che concerne la lettura e comprensione della Torà. Possiamo abbracciare il concetto che la Torà sia un documento storico scritto durante un certo periodo e conseguentemente riflette il linguaggio di allora e non necessariamente il nostro. Possiamo abbracciare le interpretazioni più recenti che a fatica cercano di dare un senso ai testi ereditati da un loro lontano passato. Possiamo limitarci a leggere quei passaggi meno illuminati o considerarli come frutto di un periodo storico primitivo. Ma se seguiamo questo processo, come possiamo continuare a considerare questo testo sacro e autorevole, decidendo di ignorare certi versi?

Credo che si possa dire che decidiamo di adottare un metodo completamente diverso di interpretazione. Decidiamo di non partire con l’assunto di sacralità del testo per intero, invece cerchiamo questa sacralità all’interno del testo nella sua interezza. Per gli ebrei liberali, la nostra Torà non è esattamente un’opera consegnataci da Dio ma più una cronaca della nostra ricerca per raggiungere Dio. Conseguentemente, attribuiamo significati di sacralità e autorevolezza a quei passaggi che per noi sembrano avere raggiunto quei livelli etico/morali che consideriamo divini. Sicuramente si tratta di un approccio non ortodosso ma non vuol dire che sia meno devoto, pio o rispettoso.

Possiamo metterla così. Affronterei un edificio in fiamme per salvare una pergamena di Torà? Mi piace pensare che lo farei.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat Shoftim 6 Settembre, 2019

Rabbi Whiman’s Blog

Con questo Shabbat ci troviamo a metà del Deuteronomio. Parashat Shoftim inizia con l’ordine di scegliere giudici e magistrati per il nuovo territorio di appartenenza e continua con uno dei grandi passaggio dalla Torà: Giustizia, giustizia sarà ciò che perseguirete.

Tzedek, tzedek tirdof - Il fatto che la parola “giustizia” venga ripetuta due volte indica l’importanza che la Torà dà a questo concetto, mentre la scelta del verbo “perseguire” illustra quanto sia difficile mettere questo principio teorico in pratica.

La giustizia è complicata perché l’opposto della giustizia non è necessariamente ingiustizia- l’opposto valutativo in molti casi è il grado della pietà. Per far si che i giudici giudichino in maniera giusta devono bilanciare i gradi di entrambe.

I rabbini ci spiegano che i nomi principali di Dio-Adonai ed Elohim- indicano in alcuni casi che egli regna dal trono della pietà ed in altri dal trono della giustizia. Col giungere di Rosh Hashanah, e con esso dell’attesa del mondo per ciò che riguarda il giudizio di Dio, imploriamo il creatore di riconoscere entrambi i lati quando viene espresso il verdetto divino.

Vi é anche un Midrash che ci racconta che il nostro mondo non fu il primo. Il primo mondo creato da Dio si basava interamente sul concetto di giustizia. A tutti veniva dato ciò che meritavano. La vita era puramente giusta. Ma questo mondo si sfaldò rapidamente e la creazione risultò insostenibile. Quindi Dio ci provò di nuovo con un esercizio esclusivo di pietà. In questo caso, nessuno risultava colpevole. La gente veniva semplicemente compresa e perdonata per i propri misfatti: anche quest’ultimo risultò insostenibile. Conseguentemente Dio combinò i gradi di giustizia e pietà, ed il mondo che ne risultò, il nostro, è risultato essere sostenibile per gli ultimi 5780 anni.

Con l’avvicinarsi dell’anno nuovo e con la nostra conseguente preparazione del nostro annuale cheshbon hanefesh – la tradizionale valutazione dei nostri giorni e di ciò che abbiamo fatto nel corso dell’anno- ci viene chiesto di giudicare come abbiamo gestito il dono della vita a noi dato. Per poterci valutare in maniera giusta anche noi dobbiamo tenere conto di verità, responsabilità, colpe, comprensione, pietà e perdono. Questo perché nessuno può rimanere esposto solo alla crudele luce della giustizia. In modo che qualsiasi vita umana possa essere sostenibile, la giustizia e la pietà devono andare di pari passo.

Durante questa stagione ci sediamo a fianco di Dio nel giudicare il nostro vissuto. Dopo aver pronunciato un verdetto giusto e onesto, Dio ci incoraggia ad andare avanti. A fare meglio. A correggere i misfatti del cuore. A fare di questo mondo una benedizione.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat B’midbar 7 Giugno, 2019

Il terzo libro della Torà - B’midbar, in ebraico (trad. “nella natura selvaggia” o “nel deserto”) – ha il titolo “Numeri” perché inizia con un censimento della nazione Israelita. La parashat di questa settimana consiste in 4 capitoli in cui si parla prettamente di numeri. Una narrativa abbastanza asciutta, ad essere sinceri.

Non sono mai stato bravo in matematica. Trovavo l’algebra confusionale, la geometria non aveva senso e cercavo di evitare il calcolo a tutti i costi. A volte faccio la battuta che decisi di diventare rabbino perché non vi era altra matematica tranne “Ascolta Israele, il nostro Signore, Iddio è Uno”.

Ma il contare- rispetto alla matematica- é sempre stato qualcosa che ho da sempre creduto meritasse attenzione, come con la nostra tradizione.

Il Salmo 90, recitato su una tomba, implora  Dio: “Insegnaci a contare i nostri giorni, in modo da poter riempire i nostri cuori di saggezza.” In altre parole, fai sì che la coscienza che i nostri giorni non sono illimitati - ma contati- ci ispiri a fare qualcosa di importante con il tempo che abbiamo a disposizione.  

Spesso parliamo del tempo come fosse un bene. Concediamo tempo. Perdiamo tempo. Parliamo di investire del tempo. Ma l’ebraismo ci consiglia più volte di considerare sacro il nostro tempo, come qualcosa di prezioso e come un’opportunità per elevare le nostre vite a qualcosa di migliore e di buono. Il concetto di vivere in pieno ogni momento è un altro tentativo di fare sì che ogni minuto conti.

E vi dirò di più su questo discorso del contare. C’é una storia di uno shtetl dell’Europa orientale, cosi piccolo da poter ospitare solo dieci uomini ebrei. Questi erano individui dediti alla loro fede, e ogni Shabbat si trovavano per formare il minyan – il quorum necessario per festeggiare lo Shabbat. Un giorno una nuova famiglia ebraica giunse in città, il che fu causa di grande gioia. Ma appena si aggiunse un undicesimo uomo, la sinagoga non riuscì mai più a formare un minyan

Se crediamo di essere indispensabili, faremo di tutto per essere presenti. La verità é proprio che, quando si parla di una congregazione, una comunità o un mondo, siamo tutti indispensabili.

La nostra tradizione ci ricorda che “Il mondo é stato creato, per il mio bene.” Di conseguenza le mie azioni determinano il valore di questo atto di creazione.  Fate finta se volete, ma ogni cosa che io faccio é in qualche modo indispensabile ed essenziale. C’è un contributo che solo io posso dare e senza questo, collettivamente la creazione non è sostenibile.

Ma torniamo al censimento Israelita. Pensatela cosi. Tendiamo a contare solo le cose che per noi sono importanti o preziose. Se siete abbastanza fortunati da possedere dell’argenteria, potete contare le forchette e i cucchiai dopo ogni utilizzo per assicurarvi di non aver perso nulla. Il loro valore è troppo grande. Rashi sulla parashat di questa settimana: consapevole del loro amore, Dio li conta tutti, uno per uno, ogni ora.

 I dati del censimento tratto dal Libro dei Numeri implica qualcosa di essenziale e di grande importanza. Negli occhi di Dio e del mondo tutti noi contiamo. Ciò significa che tutti noi siamo preziosi e indispensabili al miglioramento dell’umanità. Io lo so. Dio lo sa. E ora, nel caso non lo sapeste già o avevate semplicemente bisogno di farvelo ricordare, anche voi lo sapete.

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman

Shabbat B’chukotai 31 maggio 2019

Ci sono buone notizie e cattive notizie nella porzione della Torà di questa settimana. La parashah inizia con: “Se seguirete le Mie leggi e osserverete fedelmente i Miei comandamenti ci sarà”... benedizione. Queste sono le buone notizie. Il testo continua: “Ma, se non obbedirete alle Mie leggi e non osserverete i Miei precetti”… allora tutto l’inferno si scatenerà contro di voi. Sto parafrasando, ma il concetto è questo. La notizia migliore è che entrambe le promesse sono condizionali. Benedizione o maledizione – dipendono in larga parte da ciò che scegliamo di fare o non fare in questa vita.

Sono d’accordo con l’idea che ci siano sempre conseguenze alle nostre azioni, ma ci sono poche ragioni evidenti per credere che un tale sistema meccanicistico di ricompensa e punizione operi nell’universo. Come il Salmista giustamente fa notare a lungo, i giusti soffrono e i malvagi sembrano farla franca per i loro omicidi. Per questa ragione, il Movimento Reform ha eliminato il secondo dei tradizionali tre paragrafi dello Shema dal nostro libro di preghiere, il passaggio dal Libro del Deuteronomio che presuppone questa automatica teoria dell’esistenza: fai il bene/ricevi il bene, fai il male/ricevi il male. La vita veramente non funziona in questo modo, ma – mentre la virtù in se stessa non porta garanzia automatica di una ricompensa immediata – ciò non l’ha mai esclusa come finalità degna per raggiungere la quale l’umanità dovrebbe sforzarsi. Questo, sembra, fino ad ora.

L’International Press (Stampa Internazionale) segnala che i movimenti populisti nel mondo stanno prendendo di mira e diffamando coloro che etichettano come “benefattori”. Qui, Salvini inveisce contro i “buonisti”. I social media in Germania attaccano gli “sporchi benefattori di sinistra”. Slogan simili stanno comparendo in Spagna, Inghilterra e Australia. Cercano di rendere la parola “buono” un peggiorativo e coloro che professano di agire spinti da tali principi nemici del popolo. Il concetto stesso di bontà è sotto attacco.

La psicologia rabbinica presenta la nozione di uno yetzer tov e uno yetzer ha-rah – l’inclinazione a fare il bene e l’inclinazione a fare il male. Entrambe esistono dentro di noi ed entrambe sono necessarie. I rabbini insegnano che lo yetzer ha-rah, comunque, è un “male necessario”, poiché senza di esso nessuno avrebbe figli, costruirebbe una casa o si impegnerebbe nel commercio. Descrivevano ciò che potremmo chiamare energia originaria necessaria, e di conseguenza questo rende la vita umana una continua lotta tra i due yetzrim. L’antidoto, ciò che tiene lo yetzer ha-rah sotto controllo, è la Torà. 

In altre parole, l’ebraismo aspira a fortificare e ispirare dentro di noi l’impulso a fare il bene, a farci propendere verso lo yetzer tov. Questo ci renderebbe un popolo di “benefattori”. La traduzione tradizionale della parola mitzvà è “buona azione”. Ci viene comandato di compiere 100 mitzvot al giorno. Un mensch è una persona che fa del bene agli altri e per gli altri.  

Fondamentale per l’etica giudaico-cristiana è l’affermazione che la vita è una scelta continua tra bene e male, benedizione e maledizione, e noi esseri umani siamo sempre creature che scelgono. Leggiamo a Yom Kippur dal Libro del Deuteronomio: “Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male.   Scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza”. E nei Libri di Michea e Isaia: “Ti è stato detto che cosa è buono e che cosa il Signore richiede da te. Solo compiere la giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente con il tuo Dio”.

Non è così complicato. La Torà lo spiega molto chiaramente. Il contrario di benefattore è malfattore e coloro che rifiutano il concetto stesso di fare il bene porteranno con sé solo distruzione e maledizione. Quindi dico: Viva i buonisti! Cercate di essere annoverati nel loro gruppo.

 Shabbat Shalom

Rabbi Whiman