Shabbat Vayishlach 13 Dicembre, 2019

Nella porzione di Torah di questa settimana Giacobbe lotta contro un misterioso avversario. Che sia angelo, uomo, demone o forse la divinità personificata, il testo dà all’avversario di Giacobbe il nome eish, che significa uomo.

Concluso il combattimento, finito in parità, col sorgere del sole l’eish benedice Giacobbe, gli cambia il nome in Israele e aggiunge: “Poiché tu hai lottato con Dio e con gli esseri umani e hai avuto la meglio”. Può darsi che l’eish si stia identificando come Dio. Che questo sia vero o no, Giacobbe ne è convinto, dato che chiama il luogo dell’incontro “Peni’el” che significa “volto di Dio” e prosegue a spiegare: “Poiché io ho visto il volto di Dio, eppure la mia vita è stata risparmiata”.

Sia lo studio della Torà che la spiritualità ebraica sono state descritte e spiegate avendo in mente questo passaggio biblico. Il nome Israele – colui che combatte con Dio – conferma che la nostra tradizione è a corto di risposte definitive. Rabbi Abraham Joshua Heschel osserva con grande acume che nell’ebraismo: “il mistero della domanda aleggia al di sopra di ogni risposta”. Per gli ebrei il concetto di lotta e di ricerca hanno lo stesso peso del trovare e della fede. Sì, siamo un popolo che lotta.

Ora vorrei proporre qualche osservazione su come la Torà sceglie le metafore. Credo sia importante in questo caso.

Prima di tutto, ricordiamo che la lotta libera è uno sport in cui sono definite delle classi di peso del lottatore. Ogni lottatore combatte contro un avversario di simile o uguale peso e corporatura. Quindi il Dio contro cui lottate in un incontro teologico non è quell’entità infinita, onnipotente, creatrice dell’universo, ma un eish che possiede la vostra stessa altezza e peso che vi invita a sfidarlo sul ring.

Ricordatevi inoltre che il vostro avversario in questo caso non ha l’obbiettivo di distruggervi o uccidervi. Ci sono regole nella lotta libera. Non si può volontariamente ferire l’avversario, anche se è possibile farsi del male nel corso della lotta.

Notate inoltre che più profonda è la domanda che portare con voi sul ring, più lungo sarà l’incontro. Alcuni incontri possono durare, come a volte succede, un’intera vita. Il New York Times recentemente ha pubblicato un articolo dal titolo: “Erano innamorati ad Auschwitz. Ritrovatisi dopo 72 anni, lui si è posto la domanda: “E’ lei il motivo per cui sono ancora in vita?”

Quando si lotta contro Dio, è accettabile chiedere una sosta ogni tanto.

Ed infine, a volte anche i più grandi lottatori, in certi incontri, riescono al massimo ad ottenere un pareggio. L’obbiettivo non è sempre necessariamente vincere. Va bene anche raggiungere un accordo. Come Giacobbe, si può ricevere una benedizione se si riesce a durare abbastanza a lungo in un incontro.

E’ interessante che, nel verso sopra citato, la singola parola “tuchal” venga tradotta come ‘tu hai avuto la meglio”, il che è ovviamente legato ai concetti di vittoria, di trionfo oppure di persuasione, di controllo o di influenza; ma questo verbo ebraico viene spesso tradotto come “potere” o “essere capaci”. Quindi per ora ho scelto di leggere il verso in questa maniera: “Poiché tu hai lottato con Dio e con gli esseri umani e ne sei capace.” Mi immagino l’eish che dice: “Nell’ebraismo, la lotta libera con Dio è possibile, permessa, accettabile, tu sei autorizzato ed hai i mezzi per farlo.”

Shabbat Shalom

Rabbi Whiman