Nella porzione di Torah di questa settimana, Terumah, Dio letteralmente dona a Mosé ed agli Israeliti la planimetria per costruire il “mishkan”- il santuario portatile con cui viaggeranno nel deserto. I dettagli sono molto precisi: le stoffe da utilizzare, quale legno da impiegare, addirittura anche le spezie che dovranno essere utilizzate per i sacrifici.
“In questo santuario,” dice Dio, “gli Israeliti mi porteranno dei doni.”
I doni possono essere di qualsiasi tipo e da parte di chiunque abbia il desiderio di donare qualcosa. Dio prosegue: “E che il popolo mi costruisca questo santuario in modo che io possa soggiornare in esso.
Il santuario nel deserto non fu semplicemente una tenda e l’arca non fu semplicemente una scatola di legno. Il mishkan fu creato come luogo di grande bellezza e dignità. Doveva essere un luogo in cui lo spirito di Dio poteva albergare e l’arca talmente sacra da poter contenere la “testimonianza” di Dio - spesso considerati essere i dieci comandamenti.
Io ho pregato e cantato in luoghi sacri grandi e piccoli, riccamente decorati e anche molto semplici. Ho cantato in cattedrali e sinagoghe in tutto il mondo su diversi continenti. Ciò nonostante la presenza di Dio non era data dall’architettura, dall’organo, dalle scale in marmo o dalle foglie d’oro. La presenza di Dio era data dalla comunità che occupava lo spazio in quel momento.
Uno dei luoghi maggiormente pieni di spiritualità, che ricordo sia come luogo di preghiera che quando ho avuto il piacere di officiarvi una funzione, fu il santuario esterno al Camp Hess Kramer a Malibu, in California. Fu dove ho lavorato io, ci ha lavorato Rabbi Goor e dove ci siamo sposati. Era una cattedrale composta da semplici panchine in legno, una vetrata, ed un’arca fatta di legno di sequoia costruita dai campeggiatori. Il soffitto di questo spazio all’aperto era costituito da alberi di eucalipto, sicomoro ed acero.
Quando penso a questo luogo, sento le voci di migliaia di campeggiatori, vestiti di bianco, che con l’inizio di Shabbat cantano L’cha Dodi. Riesco ancora a vedere questi stessi campeggiatori che si stringono a vicenda ondeggiando sulle note di “Shalom Rav” e “Ose Shalom.”
L’anno scorso, incendi devastarono le colline di Malibu e distrussero gran parte di Camp Hess Kramer. Le pergamene di torah furono messe in salvo, ma gran parte di questo amato santuario fu ridotto in cenere.
Ma quelle famose voci non si zittirono – venne trovato un luogo temporaneo ed ancora una volta, si poté tornare a festeggiare lo Shabbat. Nel futuro prossimo, quel luogo verrà ricostruito e quelle voci echeggeranno nuovamente tra i sicomori.
I santuari sono spazi, ma le comunità sono fatte di persone.
A Beth Shalom, spesso preghiamo all’interno di un semplice albergo in una sala conferenze, temporaneamente convertita per festeggiare lo Shabbat o altre feste di grande importanza. Ciò non ostacola le preghiere a raggiungere i cieli o il fatto che l’amore per la nostra comunità non sia reale o tangibile.
La famosa poetessa americana Emily Dickinson scrisse:
Alcuni osservano il Dì di festa andando in chiesa –
io lo osservo, stando a casa –
con un bobolink per corista –
e un frutteto, per cupola –
Alcuni osservano la domenica in paramenti –
io mi metto solo le ali –
e anziché suonare la campana per la funzione
il nostro piccolo sacrestano - canta.
Dio predica, è un pastore di fama –
e il sermone non è mai lungo -
così invece di arrivare in Cielo, alla fine –
ci vado, per tutto il tempo.
La poesia della Dickinson ci ricorda che anche un semplice frutteto può trasformarsi in cattedrale o santuario e che la musica più bella non deve necessariamente nascere da un organo o dalle voci di un coro-può nascere dalla natura stessa.
Questo Shabbat- ovunque voi siate- vi auguro di trovare la presenza di Dio, un senso di comunità, ed un momento di rigenerazione personale.
Shabbat Shalom.
Cantor Evan Kent