A ogni Shabbat viene dato un nome, e quel nome deriva da una parola o da una frase contenuta nel verso iniziale della porzione di Torà di quella settimana. Ad esempio, Shabbat Acharei Mot prende il suo nome dalla prima frase di Levitico 16 - acharei mot sh’nai benai Aharon – In seguito alla morte dei due figli di Aronne.
Se prendete il nome di questa porzione, Emor (parlare di) e la uniamo ai nomi delle due porzioni precedenti Acharei Mot (In seguito alla morte) e Kedoshim (Santità), otterrete una frase ebraica e un interessante aforismo rabbinico: acharei mot kedoshim emor. Tradotto: In seguito alla sua morte, quella persona viene considerata santa.
Potreste pensare che questo sia l’equivalente della ingiunzione Latina “Non parlerai male dei morti.” Al contrario, nella maggior parte dei casi, la frase ha un significato ironico, dato che quando un rabbino recita un’eulogia, descrivendo e attribuendo virtù al defunto, a volte queste contrastano con i pensieri dei presenti al funerale. Acharei mot kedoshim emor. O come direbbe mia madre “Forse dovrei andare a vedere chi si trova in quella bara.” La frase è più un monito a non creare un quadro revisionista del defunto.
Quando la vita giunge al suo termine, lo chevrah kaddishah (la società che per tradizione si occupa della sepoltura) ha il compito di prendersi cura reverenziale della salma del defunto. La parola chevrah kadishah significa letteralmente “società santa”, nel senso che quella società ha il compito di mettere a punto i riti nel preparare la salma alla sepoltura.
Acharei mot kedoshim emor – parlare della santità del defunto vuol dire riconoscere quella persona nel pieno della sua umanità, nel ricordo sincero di tutto ciò che c’era di bene e di male, ciò che ha fatto e che ha lasciato incompiuto, i suoi successi ed i suoi fallimenti. La frase è un monito a non insabbiare o cambiare le cose per creare il quadro di un santo. Aspettarsi o attribuire la perfezione a persone imperfette è perfettamente ridicolo in qualsiasi momento, ma soprattutto in quello della morte.
Ciò non significa che il funerale sia un momento per risolvere tutto ciò che è rimasto incompiuto all’interno di una relazione. Posso felicemente dirvi che la frase indica anche la tendenza alquanto umana nel ricordare i defunti - come recita la preghiera - “con colpe perdonate e virtù amplificate.” Acharei mot kedoshim emor fa da testimone non solo alla universale imperfezione umana ma anche alla sua capacità di ricordare e di dimenticare. Messe insieme, queste due qualità ci permettono di mettere da parte l’imperfezione e di apprezzare il prossimo per il meglio che sia riuscito a fare nel corso della vita.
Ma perché attendere la fine per fare ciò? Mi piace pensare che acharei mot kedoshim emor ci voglia ricordare di apprezzarci l’un l’altro in questo momento - di vedere il bene e il meritevole di complimenti nelle cose riuscite a metà o in quei momenti meno performanti. Avere una prospettiva di questo tipo ci può assistere nel rispetto di coloro a cui siamo legati a livello familiare.
Nella porzione di settimana scorsa avevamo letto: v’ahavtah l’reachah kamochah, “ama il tuo prossimo come te stesso.” La frase andrebbe meglio tradotta come “agisci amorevolmente verso il tuo prossimo”, e non vi è gesto più amorevole che il vedere il bene negli altri con cui condividiamo la nostra vita.
Shabbat Shalom
Rabbi Whiman