L’ebraismo in quanto fede esiste da più di 3000 anni, ed i nostri saggi lungo questo arco di tempo hanno considerato, commentato e discusso dettagli e significati della nostra fede. Abbiamo ereditato una vasta gamma di idee e di opinioni da coloro che ci hanno preceduto. Di conseguenza, è molto difficile per un rabbino trovare un’interpretazione che non sia già stata presentata.
Ciò nonostante ecco una mia interpretazione, che posso dire di non aver mai incontrato nei commenti rabbinici.
La porzione di Torà di questa settimana ci racconta la storia del vitello d’oro. Solitamente Parashat Ki Tisa viene interpretata come la storia in cui gli Israeliti abbandonano la propria fede in Dio per venerare un idolo d’oro. Questa porzione inizia così: “..e quando la gente vide che Mosè stava trascorrendo così tanto tempo sul monte andò da Aronne e gli disse: Procuraci (un) Elohim che ci accompagni, poichè non sappiamo cosa sia successo a Mosè.” La parola ebraica Elohim può significare Dio, divinità (nel senso di dei pagani o falsi) o semplicemente una persona autorevole (come quando Dio dice a Mosè, “Aronne sarà il tuo portavoce ma tu sai il suo Elohim”).
Può darsi che la gente stesse semplicemente chiedendo ad Aronne di nominare un traghettatore, data la continuata assenza di Mosè. Ma Aronne sbagliò nel comprendere la richiesta, o meglio pensò di aver capito la richiesta del suo popolo. Volevano un Elohim, un leader, e lui pensava che volessero un Elohim nel senso di una nuova divinità. Pensando di aver interpretato correttamente la loro richiesta, senza assicurarsi di avere ragione, Aronne chiese al popolo di portargli tutto l’oro in loro possesso da lì le cose andarono fuori controllo.
C’è sicuramente un significato ben più profondo di questa storia rispetto alla mia piccola interpretazione, ma quest’ultima, a margine, ci ricorda di non ritenere di sapere con certezza ciò che gli altri intendono o pensano, sia dalle loro parole che dai fatti. Questo discorso vale soprattutto nei rapporti famigliari, dove spesso ci troviamo a ritenere che SAPPIAMO, quando in realtà vi è la possibilità di esserci fatta un’idea completamente sbagliata.
I segnali che stiamo percorrendo questa strada sono gli avverbi “ovviamente” e “chiaramente”. “Ovviamente lei intendeva questo…” “Chiaramente il suo intento era…”.
Questi segnali ci devono mettere in guardia poiché, mentre riteniamo di sapere ciò che gli altri pensano o intendono, in verità potremmo esserci sbagliati. Le incomprensioni hanno la brutta tendenza di portare a grandi disastri: da un nonnulla potremmo arrivare a vedere la gente ballare intorno ad un vitello d’oro.
Shabbat Shalom
Rabbi Whiman