La porzione di Torà di questa settimana ci porta al “Levitico”. Dal primo secolo, il terzo dei cinque libri di Mosè rappresenta una sfida per i commentatori della Bibbia.
Con la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani vennero sospesi i sacrifici animali nelle pratiche ebraiche, semplicemente non vi era più un luogo dove portare le offerte descritte nella Torà. Di conseguenza, i primi sette capitoli - sefer vayikra – che descrivono i dettagli del rito sacrificale risultano essere per noi irrilevanti. Che applicazione potrebbero avere per noi?
Ai tempi, per l’antico Medio Oriente era impossibile concepire una religione priva di sacrifici animali tanto quanto è impossibile per noi concepire una fede priva di preghiere, funzioni o l’osservanza di feste importanti. Sicuramente non era qualcosa di piacevole, ma se eri religioso, il sacrificio era semplicemente qualcosa che facevi. Tra l’altro, mi è stato riferito che ci sono rabbini a Gerusalemme che stanno ancora studiando i dettagli dei riti sacrificali, nel caso domani venisse miracolosamente ricostruito il sacro tempio.
Nonostante siano cambiate le dinamiche, la nozione ed il motivo di un “sacrificio” restano con noi. Semplicemente le interpretiamo diversamente. Sacrificare significa donare qualcosa di valore in cambio di qualcosa di valore ancora più elevato. Oggi sacrifichiamo il nostro tempo, la nostra attenzione, le nostre finanze in cambio di qualcosa di più elevato.
La parola sacrificio - almeno in italiano e in inglese - viene dal latino e significa letteralmente “rendere sacro”. La parola ebraica per sacrificio è korban, dal verbo “avvicinare”’. I sacrifici erano e sono tuttora azioni intese a elevare un progetto ad un piano più alto e avvicinare il credente alla sorgente della creazione, il Dio menzionato nelle preghiere o nei rituali.
Il libro di Michea recita: Vi è stato detto ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da voi. Solo di essere giusti, amare la pietà e camminare umilmente con il vostro Dio.
Le prime due ingiunzioni sono facili da capire, ma la terza? Sicuramente la frase non va presa alla lettera. I nostri saggi paragonarono camminare con Dio alle mitzvot – compiere gesti di bontà, gentilezza e compassione- poiché queste mitzvot danno un senso di collaborazione con il divino. Ci danno un senso di benessere con la sensazione che stiamo compiendo un passo che ci porterà più vicini a Dio e verso chi e cosa dovremmo essere.
Viene in mente un passaggio dalla vecchia versione di “Gates of Prayer”: “Come sarei felice di essere libero da dubbi e perplessità, di sapere che nella profondità del mio essere mi trovo alla presenza di Dio per il resto dei miei giorni e delle mie notti.” È nelle cose che decidiamo di rendere sacre - di sacrificare - che riaffermiamo quella convinzione e raggiungiamo il nostro obbiettivo spirituale.
Shabbat shalom
Rabbi Whiman